La sera del 19 maggio qualcuno ha cercato di introdursi nella sede del centro anti-violenza ‘Artemisia’ di Firenze e non riuscendovi ha dato alle fiamme una porta finestra. Il pericolo di incendio è stato scongiurato dall’intervento di una operatrice che stava cominciando il turno di reperibilità.
Da tempo le operatrici di ‘Artemisia’ ricevono ingiurie, minacce di violenza e di morte. Il centro anti-violenza fiorentino era stato preso di mira anche sul web ricevendo invettive violente e intimidazioni da gruppi misogini. Artemisia non è però l’unico caso. Altri centri hanno ricevuto minacce e subito atti vandalici.
In passato il centro anti-violenza ‘Linea rosa’ di Ravenna e la Casa delle donne per non subire violenza di Bologna subirono effrazioni nella loro sede e atti vandalici. Due anni fa una volontaria di ‘Demetra’ venne minacciata di essere uccisa e buttata in un sacco dell’immondizia: “So chi sei e dove abiti”, le disse l’ex compagno di una donna che aveva denunciato le violenze subite. Ma l’episodio più grave risale all’ottobre del 2007, quando, nel tribunale di Reggio Emilia, Giovanna Fava, allora presidente e avvocata del centro anti-violenza ‘Nondasola‘, viene ferita mentre patrocinava in tribunale la causa di una donna vittima di violenza. L’ex marito, accusato di maltrattamenti nei confronti della moglie, durante l’udienza le spara e poi uccide la moglie stessa e il cognato. E ancora, le minacce alla legale del centro anti-violenza ‘Le melusine‘ di L’Aquila dopo un processo per stupro.
Quanto è accaduto ad Artemisia e agli altri centri deve tenere alta l’attenzione delle istituzioni perché le operatrici dei centri, oltre a operare in difficoltà per gli scarsi aiuti ricevuti da parte di tutti i governi che si sono succeduti, sono esposte a rischi continui.
Le risposte della politica continuano a sembrare inappropriate o demagogiche. Preoccupa sentir parlare di task force e braccialetti anti-stalking da parte dei ministri della Repubblica e delude la scelta della titolare delle Pari opportunità Iosefa Idem di incontrare, il 22 maggio, decine di associazioni impegnate nel contrasto alla violenza di genere e alle discriminazioni basate sull’orientamento sessuale. Una riunione fiume che durerà dalle 9 alle 17 in cui ogni associazione avrà cinque minuti di tempo per presentare richieste ed esporre criticità. Cinque minuti! Le risposte politiche continueranno a essere inadeguate se i problemi non saranno affrontati nel rispetto delle differenti specificità e con interventi mirati. E quali specificità è possibile ascoltare e comprendere in cinque minuti? Inoltre il rinnovo del Piano nazionale anti-violenza è ancora in alto mare. La politica è latitante anche per contrastare il degrado culturale che stiamo vivendo in Italia, con rigurgiti di razzismo, fondamentalismo cattolico, sessismo e misoginia.
Il problema della violenza contro le donne viene trattato ancora da troppi intellettuali (che avrebbero la responsabilità di sensibilizzare e far riflettere l’opinione pubblica), come qualcosa che riguarda patologie o emarginazione sociale. Quante volte abbiamo letto che il problema della cultura del femminicidio in Italia è enfatizzato? C’è ancora chi nega l’impatto culturale di linguaggio e immagini violente e umilianti nei confronti delle donne, purtroppo molto utilizzate dai mass media e dalla pubblicità. E c’è ancora chi normalizza il femminicidio, tacciando chi ne parla di “bigottismo” e “moralismo”: due paroline magiche per rimuovere il problema.
di Nadia Somma