Un mondo di plastiche facciali rivestite d’oro. All’origine della Roma metaforicamente decadente (o già decaduta) di Paolo Sorrentino c’è un’America sul finire dei Settanta, caotica e volgare, in una Las Vegas insaziabile a sorprendersi e sorprendere. È quella che Steven Soderbergh ritrae mimeticamente in Behind the Candelabra, in concorso ieri al 66° Cannes.
Prolifico e multiforme, il regista americano ha sfidato il diniego della distribuzione theatrical (delle sale) per affidarsi al talentuoso canale tv HBO, che l’ha prodotto e lo programmerà in “premiere” il 26 maggio, proprio la giornata della Palma d’oro 2013. Inutile girare intorno al motivo per cui il film sarà in tv e non cinema americani: censura. Mai esplicita, ma chiaramente fornita da un perbenismo assoluto. Al centro una porzione della vita di Liberace, il virtuoso ed eccentrico pianista omosessuale che fece del kitsch extralarge & extralux uno stile di vita parecchio cavalcato per chi se lo poteva permettere nell’era di catene dorate, pellicce per uomo, e travestimenti sgargianti omnia-sex. Il segmento biopico scelto da Soderbergh racconta la storia d’amore che tra il ’77 e l’86 (anno della morte per Aids di Liberace) appassionò l’esistenza di questi e del biondissimo angelicato Scott Thorson, aspirante veterinario del Wisconsin, estraneo assoluto al glamour espanso di Liberace. Una passione estrema al passo con la vita al massimo incarnata dal musicista, le cui “gig” serali costituivano spettacoli degni eredi delle antiche Follie di Ziegfield di Broadway.
Soderbergh assorbe questo universo e, come spesso fa con eccellenza, lo traduce in un’opera dall’originalità che va oltre le (coloratissime e magniloquenti) suggestioni visive. Behind the Candelabra è una cine-narrazione solo apparentemente classica, da taluni “ridotta” all’aggettivo di “televisiva” (guarda caso è un film per la tv..), che nella sua giustapposizione di senso permette di far emergere la grande capacità di questo cineasta americano prolifico e totale di essere cine-profeta sul “come raccontare cosa”. Il meccanismo qui si applica nell’ibridazione di cinema/tv, nel meta-sguardo costante, nel saper interpretare che i due dispositivi possono anche linguisticamente completarsi e conciliarsi: tra i ’70 e gli ’80 il televisore esplose nelle case d’Occidente, parallelamente i grandi show men (tra cui Liberace) intuiscono lo “spettacolo totale” che l’unione delle arti/industrie può fornire.
Ma naturalmente la mente che interpreta il sintomo è quella di Soderbergh, geniale anche nella scelta dell’attore protagonista, un Michael Douglas infinito, perfetto. Dal volto (s)travolto dalla chirurgia plastica, dentro e fuori dal film. E – per come si è messo in gioco – quasi certo premio come miglior interprete maschile. Michael non solamente risulta il motore vibrante “dietro il candelabro”, ma funge anche da artista geneticamente “connettore” di epoche e linguaggi: il figlio di “papà Kirk” è anche il volto-chiave di una delle serie tv fondative dell’immaginario dei Seventies (e a seguire), Le strade di San Francisco. Guarda caso l’ultima serie è datata 1977, proprio l’anno in cui ha inizio il racconto di Liberace firmato da Soderbergh. La speranza è che la lungimiranza appartenga anche a qualche illuminato cine-distributore italiano, perché questo film non va disperso nell’oblio.