Mentre il premier Enrico Letta vola a Bruxelles per discutere di lotta all’evasione e all’elusione, la principale azienda italiana, la Fiat, comunica di spostare la sede fiscale di una parte del gruppo in Gran Bretagna. Per sfruttare i servizi della Piazza finanziaria inglese, certo, ma anche per pagare meno tasse in Italia, come spiega nel prospetto di quotazione a Wall Street. Le azioni della holding olandese FI Cbm, che assorbirà Fiat Industrial e Cnh, saranno infatti scambiate anche negli Stati Uniti.
D’accordo, c’è il libero mercato e l’integrazione europea: le holding possono basarsi dove è più vantaggioso. Ma la Fiat è la Fiat: quando agli Agnelli prima e a John Elkann e Sergio Marchionne poi ha fatto comodo, hanno esaltato il legame tra Lingotto e Italia. Prima per ottenere incentivi, in seguito per imporre a sindacati e lavoratori più flessibilità e meno diritti.
L’aggressività fiscale non è certo una novità in quel mondo: da anni c’è una guerra dentro la famiglia Agnelli sui presunti tesori dell’Avvocato nei paradisi fiscali e Sergio Marchionne ha eletto a proprio domicilio personale il cantone svizzero di Zug, non certo per il paesaggio. Ma la decisione su Fiat Industrial conferma la nuova fase del rapporto tra azienda e Paese: un tempo i loro interessi erano coincidenti, poi si sono separati, ora sono contrapposti. Sempre più spesso pare che ciò che è utile per la Fiat risulti dannoso per l’Italia. E il Lingotto non è l’unico a comportarsi così, come dimostrano i contenziosi di molte grandi banche col fisco (l’ultima è Mediolanum).
Se la politica italiana avesse dedicato a questi temi lo stesso tempo che ha passato a parlare di Imu, forse ora non ci sarebbe bisogno di spremere ancora i contribuenti con Iva, Tares, e tutto il resto. E magari il gettito fiscale che serve a tenere in ordine i conti arriverebbe dalle grandi imprese invece che dai lavoratori dipendenti a reddito fisso che non possono evadere. E neppure trasferire la propria residenza fiscale all’estero. Il
Fatto Quotidiano, 22 Maggio 2013