Politici italiani smarriti davanti ai commenti online, condanne per i commenti degli utenti, emendamenti che chiedono l'obbligo di rettifica anche per i siti non professionali e proposte di "controllo del web". Ma all'estero è diverso, tra responsabilità altrui e difesa del Primo emendamento
Commenti lasciati sulle bacheche online che spingono i politici a riesumare emendamenti ammazza-blog e piazze digitali equiparate ad articoli di stampa. Responsabili di spazi web ritenuti colpevoli per commenti lasciati da altri. E se la persona offesa ricopre una carica pubblica cresce l’allarme e si ipotizzano anche norme più stringenti. Eppure in Europa come negli Stati Uniti c’è maggiore tolleranza sui contenuti online specie da parte dei politici e di chi è esposto mediaticamente, come dimostra anche una recente sentenza della Corte europea.
Nelle ultime settimane abbiamo assistito a una escalation di preoccupazione nei confronti di ciò che può accadere in Rete. Prima la presidente della Camera Laura Boldrini, che a fronte di un fotomontaggio circolato online e alle minacce ricevute, ha ricordato il problema del “controllo del web”. Poi Piero Grasso, seconda carica dello Stato, che sostiene la necessità di “avere delle leggi che colpiscano i reati commessi attraverso il web, di qualsiasi tipo: dall’insulto alla minaccia, dall’ingiuria alle cose anche più gravi”. Eppure le leggi ci sono già anche se, come ha sottolineato Boldrini, il problema sono i tempi della giustizia: troppo lunghi. Alcuni giorni dopo è arrivata la condanna per diffamazione della blogger Lucia Rando, a causa dei commenti lasciati sul forum del suo blog dagli utenti, e le motivazioni della sentenza di Massimiliano Tonelli che sul suo blog “Cartellopoli” aveva accolto dimostrazioni di protesta contro la cartellonistica abusiva di Roma. Tonelli è stato condannato in primo grado per istigazione a delinquere a 9 mesi di reclusione e al risarcimento di 20mila euro perché responsabile, scrive il Tribunale di Roma, “anche per il contenuto dei messaggi in esso pubblicati”. Infine, il ministro della Giustizia Cancellieri ha concesso pochi giorni fa alla procura di Nocera Inferiore l’autorizzazione a procedere nei confronti di 22 utenti del blog di Beppe Grillo accusati di vilipendio nei confronti del Capo dello Stato.
In tutto questo, si fa strada ancora una volta l’ammazza-blog, norma nascosta tra le pieghe del ddl intercettazioni, che vuole introdurre l’obbligo di rettifica entro 48 ore dalla richiesta per tutti “i siti informatici”, senza distinguere tra un blog amatoriale e un sito gestito in maniera professionale. Se l’obbligo non viene rispettato si rischia di pagare fino a 12.500 euro di multa.
“Il progressivo rilievo della comunicazione online ha generato un crescente smarrimento delle istituzioni“, dice Guido Scorza, avvocato esperto di diritto digitale. “Boldrini, ad esempio, ha avuto una reazione sproporzionata perché si è sentita sopraffatta”. Un atteggiamento “poco giuridico e molto umano” che evidenzia una scarsa conoscenza del mezzo. In passato, l’attuale ministro della Pubblica amministrazione Gianpiero D’Alia aveva proposto una norma – poi abrogata – che introduceva la “repressione di attività di apologia o istigazione a delinquere compiuta a mezzo internet” e prevedeva l’oscuramento dei siti, inclusi dunque anche Twitter e Facebook, qualora i contenuti segnalati non venissero rimossi dal gestore.
Possibile che la norma venga riproposta? “Non credo – prosegue Scorza – ma l’ammazza-blog, vista la fretta di approvare il ddl intercettazioni, rischia di passare”. Anche se Enrico Costa, capogruppo Pdl in commissione giustizia alla Camera che ha riproposto il testo, promette di “espungerla” dal testo. Rischi più concreti arrivano invece dalla proposta del deputato Pino Pisicchio, che vuole estendere la legge del 1948 sulla stampa a tutti “i siti internet aventi natura editoriale”, senza circorscivere l’ampiezza della definizione. Un disegno di legge che, se approvato, oltre a prevedere l’obbligo di rettifica entro 48 ore e la sanzione di migliaia di euro, costringe i gestori di blog e siti a registrarsi in tribunale e a nominare un giornalista come direttore responsabile, salvo eccezioni.
Secondo Scorza, poi, le due sentenze che condannano il blogger sono “fuori dal mondo” perché non rispondono alla direttiva 31/2000 sul commercio elettronico, attuata con decreto legislativo 70/2003, che non prevede l’obbligo di sorveglianza dei contenuti per chi effettua servizio di hosting, cioè mette a disposizione degli utenti uno spazio online. Il servizio non è quindi ritenuto responsabile del materiale inserito da altri, a meno che non sappia che costituisce reato o non provveda a rimuoverlo una volta informato. “In Francia e nel Regno Unito, in generale, si attengono a questa normativa e non si sono verificati casi come quelli dei due blogger condannati per i commenti altrui”, precisa Scorza.
Ancora più liberale la disciplina negli Stati Uniti, dove, dal Communication decency act del 1996 gli internet provider non sono stati più condannati per diffamazione e sono dunque sollevati da qualsiasi responsabilità per i commenti altrui, a meno che non ricevano una esplicita richiesta da parte dell’autorità giudiziaria. Il Primo emendamento inoltre rende ancora più labile il confine tra libertà di espressione e diffamazione e in vari Stati i casi possono essere archiviati ancor prima del rinvio a giudizio, in nome del diritto di critica su temi di pubblico interesse.
Tuttavia, sebbene anche la nostra giurisprudenza preveda maggiore tolleranza da parte di chi è esposto da un punto di vista mediatico, il principio pare non essere applicato. “Se all’estero il mondo social viene percepito come una piazza digitale, per i nostri politici pare che tutto equivalga a un articolo di giornale”. Distinzione che invece è stata ribadita anche dalla sentenza della Corte europea che ha condannato il governo francese, ritenendo che l’applicazione di una sanzione di 30 euro a un manifestante che aveva offeso Sarkozy, anche se le sue parole non erano state pronunciate online, era “sproporzionata” e limitava in maniera illegittima la libertà di manifestazione del pensiero. E la sentenza evidenziava il riferimento al dibattito politico. “La nostra è una classe politica abituata a confrontarsi in rete come faceva Berlusconi, che pubblicava un video o un contenuto sul web senza cercare nessuna comunicazione bidirezionale – conclude Scorza-. E che, probabilmente, non vuole neanche mettersi in discussione”.