Cinema

Cannes 2013 – Nel nome del padre, del figlio e… di Alexander Payne

No, non è finzione: guardatevi dentro casa, ascoltate gli amici e, purtroppo, non è finzione.

Lo trovate anche voi un uomo sulla strada, vecchio, stanco, opaco. Questo non sta scappando di casa, ma verso un sogno destinazione Nebraska: incassare il premio promesso da una lettera pubblicitaria, un milione di dollari. Spelacchiato, scavato, spento/acceso come capita, quell’uomo è Woody Grant (il 76enne Bruce Dern). Forse è solo pervicacemente senile, non inguaribilmente demente, ma una cosa è certa: a casa non ne possono più delle sue fughe, dal tempo e nello spazio. La moglie Kate (June Squibb) pensa all’ospizio, i due figli ci pensano su.

Uno, David (Will Forte), finisce per pensare altrimenti: il viaggio è inutile, la destinazione un miraggio pubblicitario, ma mette il padre in macchina e parte. Nottetempo, Woody cade, si taglia la testa, finisce in ospedale, e l’on the road fa una sosta nella sua cittadina natale in Nebraska: arrivano la moglie e l’altro figlio, i fratelli di Woody bramano il premio, la riunione di famiglia può iniziare, la reunion di passato e presente, padri e figli anche…

Non ci fosse il magnifico La vie d’Adéle di Abdellatif Kechiche, la Palma di Cannes 66 sarebbe già assegnata: Nebraska di Alexander Payne, viceversa, se la deve sudare a tu per tu, fino all’ultimo.

Ottimo, comunque, è ottimo: bianco e nero per incidere su schermo una nuova grande depressione, il mostro sacro Bruce Dern per dormire a bocca aperta, barcollare sul ciglio della strada, lisciare quella benedetta lettera ed entrarci nel cuore.

No contest: Nebraska è il miglior film di Payne, summa etica dell’ironia vinificata da Sideways e il commiato ereditato da The Descendants, storia americana e presente umano, paternità relegata e riscatto delegato ai figli. I vecchi se ne vanno, ma prima fuggono: di testa e a piedi, inseguendo una promessa di felicità, un anelito di dignità.

Ebbene, non conta la lettera, ma il destinatario: David ha un sussulto e quella lettera la prende lui, facendosi carico non di quel che c’è scritto, ma di quanto il padre ci legge.

Un nuovo suv per lui che non guida più, e qualcosa da lasciare ai figli: David esaudisce entrambi i desideri, siglando con papà un magnifico, liberatorio passo a due nell’America profonda, quella che vede (bianco e) nero anche quando fuori non piove, perché c’è crisi e per i vecchi ancora di più. Contano i figli, dunque, David Grant e Alexander Payne, sulle orme di un gigante azzoppato dalla fiducia che oggi non c’è più: Woody ha l’unica colpa di credere a quel che c’è scritto sulla lettera e, commenta il mittente, too bad! Per lei, s’intende, e per chi in questo Nebraska non sappia intendere l’immagine della vita, l’eterno dai e vai delle nostre generazioni.

Mutuo per calore umano, oltre il vecchio e il giovane, il padre e il figlio: non a caso, dice il saggio Bruce Dern, “alla fine del film anche io ho trovato mio padre, Alexander Payne”.