La lobby degli industriali sta lavorando a un'autoriforma basata sul taglio drastico delle proprie strutture, 125 tra associazioni territoriali e di categoria, con l'obiettivo di risparmiare una bella fetta dei 500 milioni annuali di costi
La spending review di Confindustria parte dalle province dell’impero. L’associazione sta lavorando a un’autoriforma basata sul taglio drastico delle proprie strutture, 125 tra associazioni territoriali e di categoria, con l’obiettivo di risparmiare una bella fetta dei 500 milioni annuali necessari al funzionamento dell’elefantiaco apparato.
L’organizzazione degli industriali cambia pelle, in media, ogni vent’anni, per stare al passo con i tempi. Stavolta il grido di battaglia è: ‘’Se vogliamo dare lezioni alla politica, prima dobbiamo dare l’esempio’’. Tradotto: se la ”casta” ha fallito nell’uso delle forbici, a partire proprio dall’assurda questione del taglio delle Province, dimostriamo al Paese che noi, invece, siamo in grado di farlo.
I soldi in ballo, in questo caso, sono tutti privati: niente fondi pubblici, la Confindustria si finanzia con le quote annuali pagate dalle imprese associate. I contributi però sono decisamente costosi e oggi, complice la crisi, stanno diventando per molte aziende un salasso insostenibile. Tanto più a fronte di servizi non sempre all’altezza e di risultati politici che molti imprenditori ritengono praticamente inesistenti.
Così, pressati dal malumore degli associati (la fuga non è ancora di massa, ma le diserzioni di imprese grandi e piccole non mancano, e preoccupano), e dalle campagne antisprechi del M5S (le parole d’ordine del grillismo trovano orecchie attente anche nel mondo delle imprese), prima che la base si ribelli chiedendo conto di ogni centesimo, i vertici confindustriali hanno deciso di impugnare il machete.
Gli sprechi maggiori avvengono del resto proprio in periferia: la sede nazionale, ponte di comando del sistema, costa annualmente solo 38 milioni di euro sui 500 totali, il resto lo spendono le strutture del territorio. Intervenire sulle confindustrie locali consentirebbe di abbattere i costi almeno del 30 per cento. La linea l’ha data tre anni fa il Lazio: le quattro unioni industriali provinciali (Rieti, Viterbo, Latina e Frosinone) si sono fuse con quella di Roma in un’unica megastruttura.
L’operazione, voluta dall’allora presidente di Unindustria della capitale Aurelio Regina (oggi promosso vicepresidente nazionale), non ha però avuto un percorso facile, e oltre alle resistenze di alcuni potentati locali ha dovuto scontare anche l’ostilità di Emma Marcegaglia. L’attuale presidente, Giorgio Squinzi, è invece tra i primi promotori della cura dimagrante, di cui ha affidato la realizzazione a una apposita commissione guidata da Carlo Pesenti. Ma è chiaro che la riforma che si sta profilando non sarà indolore, innanzi tutto per lo stuolo di presidenti e vicepresidenti territoriali oggi in carica e domani destinati a decadere.
In Sicilia, per esempio, le attuali nove strutture territoriali dovrebbero ridursi a due. Non è un problema di quattrini (gli incarichi confindustriali sono a titolo gratuito) quanto di status. Un presidente di associazione, anche piccola, è comunque un’autorità, siede in prima fila accanto al sindaco, al prefetto e al vescovo; una volta espunto l’aquilotto confindustriale dal bavero della giacca resta solo un imprenditore tra tanti.
Tra gli ostacoli da superare c’è anche il problema della ”cassa”: alcune unioni industriali sono in attivo, altre in rosso, mettere i bilanci in comune non sarà semplice. Inoltre, l’accorpamento non potrà essere imposto a forza: ogni singola ‘’provincia’’ potrà scegliere in autonomia se unirsi alle altre o restare single. In pratica, dovranno essere convinte una per una. Per rendere più dolce il sacrificio si sta infatti studiando un meccanismo premiale: poltrone in Giunta (il massimo organismo di Confindustria) e sconto sulla quota associativa per chi accetterà i tagli.
Il ridimensionamento riguarda però anche i vertici nazionali: il mitico Direttivo, dove una volta al mese i big dell’industria decidevano le sorti dell’economia italiana, si è da tempo trasformato in un’adunata pletorica ritenuta inutile dagli stessi membri, tanto che si ipotizza di abolirlo, mentre il Comitato di Presidenza, più ristretto, subirebbe una ulteriore riduzione nel numero dei componenti.
Novità sono allo studio anche per l’elezione del leader: basta con le riunioni carbonare e le alleanze segrete strette nei corridoi, la base richiede un sistema di selezione dei vertici più moderno. Ogni industriale che riterrà di possedere i requisiti necessari (compresi quelli etici) potrà decidere di candidarsi alla presidenza di Confindustria, presentando un programma di governo e confrontandosi in una campagna elettorale trasparente e aperta.
Quanto ai tempi per realizzare questa ennesima rivoluzione sono piuttosto stretti: se tutto filerà liscio, le linee guida della riforma andranno in Giunta a luglio. Entro il 2014 ci sarà il nuovo statuto e nel 2016 sarà finalmente operativa la nuova Confindustria light. Intanto, un primo segnale di buona volontà sui tagli agli sprechi arriva dai Giovani industriali: il tradizionale convegno di Capri quest’anno traslocherà a Napoli. Meno glamour, certo, ma anche meno spese.