E’ arrivata nel pieno della bagarre sullo ius soli e apre un nuovo varco nel sottobosco della discussione politica italiana. L’ultima sentenza sul diritto di cittadinanza emanata a Lecce rovescia il tavolo e allarga l’orizzonte. E’ cittadino italiano non solo lo straniero che, al momento della nascita, è stato iscritto all’anagrafe e possedeva il permesso di soggiorno, ma anche chi, semplicemente, aveva i requisiti di fatto per ottenere sia iscrizione che titolo, sebbene nessuno si sia attivato per richiederli.
E’ questa la sintesi della decisione assunta dalla Seconda sezione civile del Tribunale, provvedimento depositato l’11 marzo scorso, ma reso noto solo ora. Porta in calce la firma del giudice relatore Adele Ferraro e va a colpire un nervo scoperto della normativa italiana. Lo fa sulla base di un principio di giustizia: “Se gli affidatari del minore non hanno effettuato le dovute richieste, l’interessato non ha, per motivi legati all’età, alcuna responsabilità per fatti od omissioni altrui”. Insomma, è alla luce di questo che, secondo i magistrati pugliesi, hanno il pieno diritto di essere riconosciuti come cittadini italiani tutti coloro che sono nati in Italia e che abbiano soggiornato sul territorio nazionale fino al raggiungimento della maggiore età. Anche se non hanno avuto l’iscrizione all’anagrafe. Anche se sono sprovvisti di titolo di soggiorno sin dalla nascita. Ragionando a posteriori, infatti, se oggi avessero tutti i requisiti per ottenere sia l’una che l’altro, non possono essere penalizzati.
La decisione prende le mosse da una contesa giudiziaria tra A.M., difeso dall’avvocato Monica Colella, e il Comune di Lecce, che due anni fa ha rifiutato la sua richiesta di acquisto della cittadinanza. Il ragazzo è nato nel 1993 in un paesino del leccese. E’ figlio naturale di una cittadina delle Filippine e di padre non noto. Al momento della nascita, la madre era irregolarmente soggiornante nel territorio nazionale. Ciononostante, ha dichiarato la nascita del bambino, che, dopo appena due mesi, viste le gravi condizioni di indigenza, è stato affidato ad un istituto. Nel ’94, A.M. è stato adottato da una famiglia italiana, ha frequentato le scuole dell’obbligo fino al diploma, si è sottoposto alle vaccinazioni obbligatorie e ha conseguito un permesso di soggiorno autonomo, la tessera sanitaria e la carta di identità rilasciata dal Comune di Lecce. Nel 2005, la madre naturale è riuscita a regolarizzare la propria posizione usufruendo della sanatoria per colf e badanti e ottenendo un permesso di soggiorno, sul quale è stato annotato pure il figlio. Nel 2011, al compimento del diciottesimo anno di età, lo spartiacque per ogni straniero nato in Italia, A.M. ha chiesto il riconoscimento della cittadinanza.
Si è trovato a sbattere contro il rifiuto dell’Ufficiale dello Stato Civile del Comune, “in quanto, al momento della sua nascita, nessuno dei suoi genitori era residente sul territorio della Repubblica, requisito essenziale previsto dalla Circolare del Ministero dell’Interno n. 22 del 7 novembre 2007 Prot. K 64.2/13”. Uno schiaffo sonoro. E un rischio gravissimo. Pur essendo il ragazzo nato e cresciuto nel Salento, in una famiglia italiana, di lingua italiana, frequentando parenti ed amici italiani, avrebbe, a quel punto, potuto continuare a vivere qui solo dietro rilascio di un permesso di soggiorno per studio o lavoro. Altrimenti, avrebbe corso il pericolo di essere espatriato in un Paese mai conosciuto, le Filippine.
Un’insidia che si ripete pari pari per almeno 590mila bambini registrati come stranieri all’anagrafe solo nell’ultimo decennio, cittadini dei paesi di origine dei genitori, forestieri in casa. Perché, è vero, finché si è minori si gode di alcuni diritti, quello di residenza, l’accesso alla salute e al sistema scolastico, ad esempio. Dopo il diciottesimo anno, però, ciò che sembra acquisito decade. Ed è il regresso. Le stringenti norme sul riconoscimento della cittadinanza sono spesso complici del controsenso di chi, da minorenne, è stato di fatto equiparato agli italiani e poi, da maggiorenne, è confinato nel limbo degli immigrati. Ai quali si applicano, tra l’altro, le previsioni della legge Bossi- Fini. E’ la sorte che sarebbe toccata, paradossalmente, anche ad A.M., se la sentenza del Tribunale si fosse limitata alla parole secche della legge, se non avesse saputo navigare dentro norme vecchie e immobili. Le stesse che la politica italiana, nonostante il monito del Presidente Giorgio Napolitano, nonostante l’input arrivato dal neoministro per l’Integrazione, Cecile Kyenge, continua a guardare immobili, come un quadro antico.