Una guida agli aspetti emotivi e pratici del diventare madre, che rompe gli schemi che rendono la maternità un percorso omologato e protetto, avvolto da una mistica spesso soffocante. L’ultimo libro di Elisabetta Ambrosi (già autrice di ‘Non è un paese per giovani’, ‘Inconscio ladro! Malefatte degli psicoanalisti’ e ‘Chi ha paura di Nichi Vendola?’), dal titolo ‘Mamma a modo mio’ (Urra edizioni, 13 euro), demolisce molti degli stereotipi che ancora gravano sulla maternità. E indica, attraverso consigli e suggestioni, come percorrere la strada di un figlio senza tradire i propri desideri e inclinazioni. Perché, come suggerisce l’autrice, in tema di maternità non dovrebbero esistere strade predefinite o “migliori”. Invece le ingerenze esterne, i modelli, le richieste sono spesso schiaccianti.
Dal libro emerge che diventare mamma in Italia è un’esperienza che sottopone ancora a molte pressioni. Quali sono?
L’immagine-aspettativa della madre perfetta resta forte. Si è solo trasferita su aspetti diversi rispetto al passato: non più, magari, lenzuola stirate ad arte, ma una gravidanza perfettamente salutista, un allattamento al seno molto prolungato, uno svezzamento biologico con pappe fatte in casa. Tutte cose buone, ma che finiscono per gravare esclusivamente sulle donne.
In più parti del testo si fa riferimento all’eccessiva medicalizzazione della gravidanza.
Non vorrei essere fraintesa: l’attenzione che oggi si dà all’alimentazione e ai controlli necessari è positiva. Ma siamo arrivati a un eccesso di diagnosi precoce e soprattutto, direi, di ansia intorno alla diagnosi e alla protezione, mentre l’aspetto emotivo spesso viene messo in secondo piano. Soprattutto si raccomanda alla donna di “non fare”, mentre la gravidanza è un momento di straordinaria possibilità. Che troppo spesso invece culmina, tra l’altro, in un parto cesareo non richiesto, di cui in Italia si abusa.
Anche il post gravidanza è problematico e la fatica ricade spesso quasi esclusivamente sulla donna. Perché il ruolo della mamma è ancora così sbilanciato rispetto a quello del padre?
Il problema è oggi al tempo stesso culturale e strutturale. Anche se oggi i padri fanno molto di più rispetto al passato, l’idea di una condivisione davvero paritetica è lontana anni luce e la donna è ancora vista come la principale portatrice di cura. È sempre la mamma ad allontanarsi dal lavoro, ad allattare e a svezzare il bambino, spesso in una situazione di solitudine e di stanchezza terribili. Questo schema viene confermato, in una spirale perversa, dal modo in cui è costruito quel poco welfare che c’è, e che spinge a proteggere il lavoro dipendente “forte”, cioè quello che produce più reddito, che nella gran parte dei casi è quello del marito. L’assenza di servizi e di asili fa il resto.
Come viene vissuto questo dalle donne?
Alla fine, credo, anche se nascosto, c’è sempre un senso di sconfitta: o si resta a casa senza lavoro con i bimbi, con tante capacità e aspirazioni frustrate o, se si lavora, si finisce dentro una morsa infernale di doppia fatica, che non lascia quasi nessun margine di libertà.
Come cambiare la situazione?
Non è semplice. La crisi ha finito per aggravare questo schema e arrestare la tendenza leggermente virtuosa, ma fragile, degli anni ’90 e 2000, cioè l’aumento dell’occupazione femminile e dei servizi. Gli echi del dibattito americano sulle donne in carriera che a un certo punto per scelta tornano a casa, perché dicono: “Il nostro modello non è quello, quel potere non ci appartiene” – considerazione vera e giusta – da noi paradossalmente finiscono per diventare una sorta di consolazione ideale-ideologica per quelle che sono a casa. Quasi sempre non per scelta. Ma in ogni caso, ci tengo a sottolineare, avere un figlio resta un’esperienza indimenticabile, che fa nascere nuove motivazioni e spinte vitali.
Come fare per trovare aiuti o supporti al di là del proprio partner?
Nel libro insisto molto sul concetto di condivisione, che ai tempi della crisi rappresenta l’unica strada percorribile. Aprire la famiglia all’esterno, chiedere aiuto con intelligenza, tatto e gratitudine a parenti ma anche ad amici, con o senza figli. Inventarsi nuovi modi per dividere la fatica, magari mettendo più bambini insieme con una sola babysitter. E, al tempo stesso cercare, come di fatto già avviene, nuovi modi di lavorare, magari più faticosi e senza garanzie rispetto al passato, ma sempre preziosissimi. Non possiamo privare il mondo là fuori, quello pubblico, della nostra presenza e del nostro valore. Sarebbe una tragedia!