La maggioranza delle larghe intese vuole cambiare le procedure per accelerare le modifiche della Costituzione partendo da un "Comitato dei 40". Ma pesano tutti i tentativi del passato: dalla commissione Bozzi a quella di D'Alema. Tutti finiti con un nulla di fatto
Una riforma per fare le riforme. Ovvero: modificare con una legge costituzionale l’articolo 138 della Costituzione per realizzare più facilmente attraverso il nuovo meccanismo le riforme della Costituzione. Questa, in pochissime parole, la procedura attraverso cui la maggioranza e il governo di larghe intese intendono realizzare le riforme della Carta del 1947 in ambito istituzionale. Non solo le riforme, insomma, ma prima ancora una riforma delle procedure di riforma, che sarà in ogni caso destinata a suscitare un vigoroso dibattito. Come per i numerosi precedenti, tutti finiti con un nulla di fatto. A partire dalla Bicamerale voluta da Massimo D’Alema.
Correzione del Porcellum entro l’estate
Il doppio binario per le riforme istituzionali è stato prospettato nel vertice di palazzo Chigi tra governo e maggioranza proprio in materia di riforme. Riunione nel corso della quale è stato tra l’altro dato il via libera alla correzione della legge elettorale, il vituperato Porcellum, per adempiere ai rilievi mossi dalla Coste costituzionale. A tale proposito il capogruppo del Pdl alla Camera Renato Brunetta informa che tra le forze di maggioranza “c’è un accordo a fare una riforma minimalista che ricostituzionalizzi il Porcellum in tempi brevi e che metta in sicurezza il sistema elettorale nel caso in cui si vada al voto”. Secondo fonti di governo la modifica, da approvare entro l’estate, consisterebbe nello stabilire una soglia del 40 per cento per attribuire il premio di maggioranza. Una modifica che allo stato delle cose serve solo a “garantire questo governo” a giudizio del Pd; dove si ritiene che eventuali elezioni produrrebbero solo “la prosecuzione” delle larghe intese, in quanto si giudica “impossibile” che una coalizione superi il 40 per cento, e si preferirebbe pertanto ripristinare direttamente il Mattarellum (procedimento impedito per via referendaria a causa del principio di “non reminiscenza” affermato dalla Consulta, ma possibile per via legislativa).
Il comitato dei 40
Maggiore sintonia invece sul percorso per le riforme. Il 29 maggio Camera e Senato approveranno due mozioni per tracciare – come già accaduto nel 1983 con l’istituzione della commissione Bozzi – da un lato i contenuti e dall’altro le procedure del processo riformatore. “Questa prima fase sarà affidata a un Comitato dei 40”, come spiega il ministro incaricato Gaetano Quagliariello: una commissione paritetica di 20 deputati e altrettanti senatori delle commissioni affari costituzionali delle Camere (rispettivamente composte da 46 e 27 parlamentari). Tale comitato o commissione dei 40 sarà dunque istituito a norma di articolo 138 – secondo cui le riforme della Carta “sono adottate da ciascuna Camera con due successive deliberazioni ad intervallo non minore di tre mesi, e sono approvate a maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna camera nella seconda votazione” – con la prima votazione che dovrebbe concludersi entro il 31 luglio. Entro fine maggio il governo procederà inoltre alla nomina di un gruppo di esperti con ruolo “consultivo”, informa ancora il ministro, quindi da tenere “ben distinto” rispetto al “comitato dei 40 e l’iter parlamentare delle riforme” che a giudizio di Quagliariello dovranno infine essere sancite tramite “un referendum confermativo, perché il popolo deve poter esercitare la sua sovranità”.
Posto che rimane da capire chi tra governo e parlamento darà il via all’iter delle riforme, il percorso delineato da Quagliariello prospetta un doppio binario per le riforme istituzionali: prima la legge costituzionale che istituisca il comitato dei 40 e ne stabilisca le modalità di intervento, modificando la doppia lettura prevista dall’articolo 138, e poi la discussione e l’approvazione delle riforme propriamente intese. “L’idea è far partire una legge costituzionale che conferisca a questa commissione bicamerale un potere redigente, avendo poi come sbocco finale quello un voto unico di deputati e senatori sul testo delle riforme da sottoporre poi a referendum popolare”, spiega il capogruppo di Centro Democratico Pino Pisicchio, parlamentare di lungo corso che di riforme è tra i più esperti. In parole poverissime: una legge costituzionale secondo l’iter previsto dall’articolo 138 che poi apra però a nuove procedure, affidando alla commissione non solo potere “referente”, ma “redigente”. Percorso destinato a sollevare polemiche fin dal principio e che rappresenterebbe la quarta via bicamerale alle riforme istituzionali dopo i precedenti degli ultimi 30 anni.
1983-1985, la Commissione Bozzi
La Bicamerale viene istituita il 12 ottobre 1983 col voto simultaneo delle Camere, che approvavano due documenti analoghi in cui si prevede l’istituzione di una commissione composta da venti deputati e altrettanti senatori. I presidenti di Camera e Senato, Nilde Iotti e Francesco Cossiga, nominano presidente il liberale Aldo Bozzi. Dopo 50 sedute plenarie e 34 dell’ufficio di presidenza, il 29 gennaio 1985 Bozzi presenta la propria relazione; quelle di minoranza, scritte da singoli e gruppi parlamentari, saranno invece numerose. Sostiene il presidente che il bicameralismo vada differenziato col principio del “silenzio-assenso” (le leggi possono essere richiamate dall’altra Camera entro un termine, altrimenti si danno per approvate), il “semestre bianco” vada abolito, la fiducia sia concessa al solo premier come al cancelliere tedesco. Bozzi chiede inoltre norme sull’attuazione degli articoli 39 (organizzazione sindacale) e 49 (democrazia interna ai partiti: statuti, primarie, limiti alle spese elettorali) della Carta. Il lavoro della commissione non produce comunque effetti, benché il dibattito si accenda specialmente tra gli studiosi.
Dalla “grande riforma” craxiana ai referendum elettorali
Sin dal settembre 1979 il segretario socialista Bettino Craxi aveva prospettato l’idea di una “grande riforma” volta a migliorare “l’efficacia” dell’esecutivo attraverso il “presidenzialismo” e una modifica dei regolamenti parlamentari che agevoli il governo. Grazie alla collaborazione di Giuliano Amato il segretario socialista riuscì all’inizio ad aggregare intellettuali e politologi, ma si scontrò col no della sinistra Dc di De Mita e del Pci di Berlinguer; fatta eccezione per la minoranza migliorista guidata da Giorgio Napolitano. Alla fine la “grande riforma” rimase “un inutile abbaiare alla luna”, come ammise lo stesso Craxi. Tantopiù che pure i socialisti oscillavano tra presidenzialismo all’americana e semipresidenzialismo alla francese. Sarà poi Napolitano, in qualità di presidente della Repubblica, a ammettere che “il discorso sulle riforme istituzionali” aveva rappresentato “l’elemento forse più innovativo della riflessione e della strategia politica dell’onorevole Craxi”; cui pure Norberto Bobbio nel 1992 riconobbe il ruolo di “precursore”.
Il primo, grande impulso alle riforme viene però impresso dal referendum del giugno 1991 promosso da Mario Segni sull’abolizione delle preferenze multiple (degenerate nel sistema delle cordate) per boicottare il quale proprio Craxi aveva invitato a “andare al mare” e che raccoglie invece un larghissimo consenso. A distanza di meno di due anni fa seguito l’altra consultazione, quella del 18 aprile del 1993, in cui una maggioranza schiacciate si esprime a favore della trasformazione del sistema elettorale uninominale del senato da proporzionale a maggioritario. L’esito della consultazione impone la revisione complessiva del sistema elettorale anche per la Camera (leggi 276 e 277 del 1993) e l’adozione del cosiddetto Mattarellum, dal nome del dc Sergio Mattarella che ha redatto il testo insieme al comunista Lucio Magri.
1992-1994, Commissione De Mita-Iotti
Una nuova commissione bicamerale viene istituita nel 1992, in pieno ciclone Tangentopoli: la presiede prima il democristiano De Mita e poi l’ex presidente pidiessina della Camera Iotti. E’ composta da 30 deputati e altrettanti senatori, col mandato di predisporre un progetto organico di revisione della seconda parte della Costituzione, con particolare riferimento alle materie relative a forma di stato, forma di governo e bicameralismo, sistema delle garanzie.
La legge costituzionale 1/1993 assegna alla Bicamerale poteri referenti. Il progetto, presentato all’inizio del 1994, rafforza il presidente del consiglio, introducendo la figura del primo ministro con poteri simili a quelli del cancelliere tedesco. Ma la fine anticipata di una legislatura tormentata bloccherà anche questo progetto. Sebbene nessuna riforma venga approvata, la discesa in campo del Cavaliere e il tramonto – per consunzione, scissione, rifondazione o dissoluzione – di tutti i partiti storici farà coincidere per convenzione la fine della prima repubblica con quella della XI legislatura.
1997-1998, Commissione D’Alema
Con la legge costituzionale 1 del 1997 del 24 gennaio è istituita la terza commissione bicamerale incaricata di elaborare progetti di revisione della seconda parte della Costituzione sempre “in materia di forma di Stato, forma di governo e bicameralismo, sistema delle garanzie”. Composta da 35 deputati e 35 senatori, entro il 30 giugno la commissione deve presentare alle camere un progetto di legge di riforma, con relazione illustrativa e eventuali relazioni di minoranza.
Depositato il testo del progetto, tutti i parlamentari possono presentare emendamenti. Dopo il loro esame la commissione presenta alle camere uno o più progetti di revisione costituzionale. I testi vengono esaminati dai due rami del Parlamento. Il progetto o i progetti “sono adottati da ciascuna camera con due successive deliberazioni ad intervallo non minore di tre mesi, e sono approvati articolo per articolo dalle camere senza voto finale su ciascun progetto, ma con voto unico sul complesso degli articoli di tutti i progetti. Nella seconda deliberazione per il voto unico finale è richiesta la maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera”. La riforma costituzionale così approvata è infine sottoposta “ad unico referendum popolare entro tre mesi dalla pubblicazione ed è promulgata se al referendum abbia partecipato la maggioranza degli aventi diritto e sia stata approvata dalla maggioranza dei voti validi”. In vero, però, il tentativo di revisione seguirà solo in parte la via tracciata dalla legge 1 del 1997.
I lavori partono regolarmente. Eletto presidente Massimo D’Alema (Pds), si costituiscono quattro Comitati: forma di governo, forma di stato, garanzie, parlamento e fonti normative. Il 30 giugno, come previsto, la bicamerale presenta il testo al parlamento. Il 16 settembre 1997 la Commissione si riunisce di nuovo e il 4 novembre presenta il progetto definitivo. Quando il progetto della Bicamerale giunge in aula, però, nel gennaio del 1998, le differenze di vedute fra le forze politiche aumentano, limitando le prospettive di riuscita del processo riformatore. Il 9 giugno l’esame del testo è cancellato dal calendario dei lavori della camera dei deputati. L’iter si interrompe a metà, definitivamente, ancor prima del voto del parlamento e del referendum popolare.
Se la bicamerale è illegittima in quanto aggira l’articolo 138
Diversi giuristi hanno sollevato dubbi di legittimità sul procedimento previsto per l’approvazione dell’eventuale progetto di riforma partorito dalla bicamerale presieduta da D’Alema. La legge costituzionale istitutiva della commissione prevedeva che “il progetto o i progetti di legge costituzionali fossero adottati da ciascuna camera con due successive deliberazioni ad intervallo non minore di tre mesi e che fossero approvati articolo per articolo dalle Camere senza voto finale su ciascun progetto, ma con un voto unico sul complesso degli articoli di tutti i progetti”. Nella seconda deliberazione per il voto unico finale veniva infine richiesta la maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna camera.
A prima lettura il procedimento sembrerebbe conforme al dettato dell’articolo 138 della Costituzione (che disciplina il procedimento di revisione costituzionale e delle altre leggi costituzionali), ma approfondendo l’esame emergono alcuni aspetti controversi. La Carta stabilisce infatti che per procedere a una revisione dell’impianto costituzionale sia necessaria l’approvazione di entrambe le Camere separatamente (articoli 138 e 72) un procedimento che non riguarda solo l’Aula, ma anche le commissioni. La legge istitutiva della Bicamerale, invece, prevedendo un’unica commissione facente le veci di entrambe le camere, finiva per aggirare la doppia lettura. Istituendo un voto unico sull’insieme degli articoli, i parlamentari (come pure il corpo elettorale, dato che a completamento del procedimento si prevedeva un referendum obbligatorio) si sarebbero trovati di fronte all’alternativa secca tra approvare o bocciare in toto il progetto così delineato. Un modo per aggirare l’architettura rigida della Costituzione per arrivare a un risultato più immediato, sebbene potenzialmente illegittimo. Tanto è vero che, dopo il fallimento della Commissione d’Alema, preso atto dell’incapacità di realizzare riforme in blocco, si tornò a seguire la procedura prevista dall’articolo 138.