Con la sospensione dell’Imu, provvedimento poco sensato sul piano economico e volto soltanto ad assecondare le esigenze elettorali di Berlusconi, sembra quasi inevitabile l’aumento dell’Iva stabilito dal governo Monti.
L’imposta sugli immobili ha dei sia pur grossolani caratteri di progressività, nel senso che colpisce maggiormente chi ha una maggiore capacità contributiva. Circa la metà delle famiglie italiane non la paga o perché non possiede un’abitazione o perché la detrazione annulla l’onere di imposta. Inoltre il pagamento è concentrato prevalentemente sugli scaglioni di reddito più elevati.
L’Iva, invece, è comunemente considerata regressiva, perché colpisce allo stesso modo tutti i consumatori indipendentemente dalla loro capacità contributiva. Oggi su lavoce.info Francesco Daveri (ordinario di Politica Economica all’Università di Parma) ha ricordato che gli effetti re-distributivi dell’imposta dipendono dai profili di consumo delle varie categorie di consumatori, suggerendo che l’aumento dell’Iva sarebbe da evitare, certo, ma non a tutti i costi. Il ragionamento è basato sull’osservazione di una tabella molto semplice contenuta nel Rapporto annuale sulla situazione economica del paese dell’Istat, presentato due giorni fa a Montecitorio.
“La tabella mostra che le famiglie meno abbienti – il primo quinto – destinano la maggior parte della loro spesa (circa il 38 per cento) alle categorie di beni e servizi colpite dall’Iva al 4 o al 10 per cento (la cui aliquota rimarrebbe ferma), mentre i beni “ivati” al 21 per cento rappresentano solo poco più di un quarto del loro paniere di spesa. Ad essere più colpiti dall’aumento dell’Iva, sarebbero invece le famiglie più ricche che – dice la tabella – spendono quasi il 40 per cento del loro paniere in beni e servizi con Iva al 21 per cento”.
L’implicazione di questo argomento, secondo Daveri, è che, dati i nostri obiettivi di bilancio, una rinuncia all’aumento dell’Iva dovrebbe essere accompagnata da una parallela (ulteriore) riduzione della spesa pubblica, anziché dal ritocco delle accise sui carburanti o della tassazione sugli affitti (il cui aumento, invece, penalizza in modo decisamente più marcato i meno abbienti). Altrimenti, se non si vuole tagliare la spesa pubblica, meglio non rinunciare all’aumento dell’Iva. Il ragionamento merita di essere qualificato da due ordini di considerazioni.
Come mostrano le stime dell’Istat sulla spesa delle diverse classi tra il 1997 e il 2011, la distanza relativa tra i profili di consumo delle famiglie del primo e dell’ultimo quinto della distribuzione ha evidenziato una netta tendenza a ridursi. Ciò suggerisce che, col passare del tempo, l’impatto dell’aumento dell’Iva sui meno abbienti è destinato ad aumentare, ridimensionando gli eventuali effetti redistributivi e comprimendo ulteriormente la spesa per consumi.
Anche nel breve periodo del resto, secondo le simulazioni dell’Istat, dall’aumento dell’Iva non sarebbero maggiormente danneggiati solo i ricchi tout court (l’ultimo quinto) ma, in misura crescente, i “più ricchi”, cioè coloro che più modestamente si trovano in condizioni migliori dei poveri. Si tratta del secondo, terzo e quarto quintile della distribuzione della spesa per consumi insomma, approssimativamente corrispondente alla classe media, che di questi tempi non naviga certo nell’oro. Per i componenti di questa categoria, l’impatto dell’aumento dell’Iva non sarebbe sensibilmente diverso da quello esercitato sui ricchi, e gli effetti redistributivi sarebbero probabilmente trascurabili.
È vero quindi che l’aumento dell’Iva dovrebbe comportare una modesta redistribuzione a favore dei poveri (i quali, tuttavia, si troverebbero comunque a dover fronteggiare un peggioramento del loro potere d’acquisto). Ma tale effetto si ridimensionerà nel tempo, e in questa fase sarebbe vitale dare respiro anche alla classe media.
Ma soprattutto bisogna tener conto del fatto che la riduzione della spesa pubblica può avere effetti regressivi considerevoli, nonché un’influenza di lungo termine sulla competitività della nostra economia. Al di là di qualsiasi considerazione politica sul ruolo del settore pubblico (che pure, tuttavia, è opportuno fare) i continui tagli alla sanità e all’istruzione non sono indolori, perché causano un progressivo deterioramento del capitale umano – e secondo alcuni studi anche del capitale sociale – che si ripercuote a sua volta sulla produttività.
Le spese da tagliare vengono individuate mediante ragionamenti analoghi a quelli sperimentati con la spending review, che si è mostrata largamente inaffidabile. Non si tratta soltanto di una razionalizzazione, come si vuole far credere, ma anche di una sequela di colpi di mannaia sulle spese più facilmente “aggredibili”, cioè destinate a beneficiare quei gruppi sociali che non hanno la forza contrattuale per “difendersi” dalle azioni dell’esecutivo – e da quelle, concomitanti, dei gruppi di pressione che fisiologicamente ne condizionano l’operato. L’esempio più rappresentativo sono i continui tagli delle prestazioni erogate dal Servizio Sanitario Nazionale.
In una fase in cui la priorità fondamentale è rilanciare la domanda, molto meglio sarebbe evitare l’eliminazione dell’Imu – che probabilmente avrebbe un impatto modesto o nullo sui consumi, come ha mostrato Paolo Manasse (ordinario di Economia Politica all’Università di Bologna), evitare l’aumento dell’Iva e fare scelte più coraggiose sul piano della spesa pubblica, specie per investimenti, soprattutto in settori critici per il benessere (e la produttività) dei cittadini quali la sanità, l’istruzione e la ricerca.
Questo nel breve periodo. Per il lungo periodo, è impensabile ignorare ancora la necessità di cambiare gli obiettivi di bilancio. Il governo dovrà prima o poi prenderne atto, e concertare coi nostri partner una nuova proposta europea di politica economica che interrompa la spirale suicida dell’austerità. Anche attraverso la revisione del Fiscal Compact, considerato che l’obbligo che per noi ne deriva di dimezzare il debito pubblico rispetto al Pil entro venti anni è irrealizzabile, a meno di non ottenere robusti avanzi primari da qui al 2033. Vogliamo davvero altri venti anni di austerità?