La morte “agognata” è il paradosso più triste della vita! Significa desiderare quello che maggiormente si teme, un disperato ma lucido tentativo di fuggire da qualcosa così insopportabile da alterare i codici più profondi della nostra natura.
Mentre di fronte al pericolo di suicidio in uno stato alterato della mente, ogni tentativo di protezione è doveroso e facilmente condivisibile, di fronte alla scelta consapevole della morte si rimane perplessi e sconcertati. In “Obbedienza e Libertà” (Campo Dei Fiori edizioni, 2012), un cattolico militante come Vito Mancuso ribadisce che la dignità della vita umana si raggiunge nella libertà di decidere anche il momento della propria morte. Ma questo giusto principio, ancora non tutelato da una legge, non esaurisce il dramma di coloro che fanno questa scelta, né la sensazione di dolore, sbigottimento, fallimento e rabbia di chi sta loro vicino. La morte coinvolge emotivamente chi lascia e chi è lasciato, è un dramma relazionale. Di fronte all’agonia della persona cara si invoca la guarigione o la fine della sofferenza, ma spesso questa fantasia compassionevole può tingersi di una rabbia colpevolizzante: “come osi farmi questo….sei ingiusto, a me non pensi…”.
In questo gioco dell’ambivalenza fra compassione e rancore, la scelta di morire da parte della persona amata, sancisce, per chi resta, la più dolorosa delle frustrazioni: il fallimento della funzione salvifica del proprio amore. In “Mare dentro“, un film di Alejandro Amenábar del 2004, Rosa (Lola Dueñas) una donna semplice e insoddisfatta, trova la propria ragione di vita nell’amore egoistico verso Ramon Sampedro (Javier Bardem) che a causa di un tuffo incauto è rimasto tetraplegico e persegue un unico sogno, la possibilità di morire, o meglio affermare il diritto di poter scegliere la dignità della propria vita stabilendo il momento della propria morte. Ramon rimane lucido fino alla fine, mentre Julia (Belén Rueda), l’avvocatessa che lo aiuta a perorare la causa dell’eutanasia, per una malattia rara, perde oltre all’uso delle gambe, anche la memoria e con questa la consapevolezza di sé. L’alterazione della coscienza comporta spesso una delega mai data, qualcun’altro deve scegliere per chi non è più in grado di farlo. Ma la coscienza è misteriosa non è tutto o niente, c’è forse ancora un desiderio non esprimibile di chi sta male che potrebbe non coincidere con quello di chi prende la decisione, o la possibilità che più persone, con eguale diritto di vicinanza ma diverso orientamento, si debbano contendere una scelta necessariamente discrezionale.
Anche il testamento biologico, a mio avviso, non risolve del tutto il problema perché il libero arbitrio si può esprimere solo contestualmente all’azione. In caso di suicidio assistito ognuno deve essere sicuro di poter rinunciare fino all’ultimo alla propria decisione. Senza questa garanzia il cerimoniale della dolce morte si scompagina e rischia di perdere la motivazione solidale per trasformarsi in un atto potenzialmente sadico. E’ una delle tesi del recente film di Valeria Golino, “Miele“, in cui la protagonista Irene (Jasmine Trinca), “Miele” per i suoi clienti, è un angelo un po’ torbido, molto fragile, che dispensa a pagamento la morte pensando di fare un lavoro etico fino a quando non comprende che c’è una strana dinamica tra il corpo e la mente: chi sta male nel corpo vorrebbe uccidere la malattia non se stesso, il suo dramma è che le due cose coincidono. Per chi lo assiste non è facile farsi carico di questa ambivalenza. Per chi non ha malattie del corpo il desiderio di morte è l’espressione di una apparente libertà psichica e suscita, in chi assiste, la difficoltà di sopportare una inquietante sorta di complicità.