Domenica si vota in molti comuni italiani per rinnovare gli organi amministrativi. Si vota anche a Bologna. Si vota per un referendum consultivo che riguarda il finanziamento delle scuole paritarie private da parte del Comune.
Chi voterà A dirà che lo 0,8% dei soldi comunali attualmente destinati al sistema educativo non dovrebbero essere dati alle scuole paritarie, chi voterà B sosterrà l’attuale sistema per cui il comune di Bologna, ogni anno, riconosce alle scuole paritarie private un quid a fronte della messa a disposizione di 1736 posti per i bambini bolognesi.
La prima questione su cui bisogna fare chiarezza è che cosa sia pubblico e che cosa non lo sia. Ciò che è pubblico non è solo quello che è agito in prima persona dalle amministrazioni pubbliche, che siano locali o statali. È pubblico ciò che attiene a delle caratteristiche precise.
Il servizio svolto dalle scuole paritarie, sebbene siano private, non è un servizio privato, ma è un servizio pubblico agito da privati che non può essere visto per questo come di serie B o non qualificato. Penso agli insegnanti di quelle scuole: sono forse di serie B rispetto a quelli delle scuole statali o paritarie comunali? Hanno percorsi formativi diversi? Non mi pare.
Ci sono tanti esempi di servizi che il pubblico delega o demanda a istituzioni private che solo per questo non diventano servizi privati, ma restano pubblici e di quei servizi “delegati”, il pubblico deve essere garante della qualità e della libera e pari possibilità di accesso per tutti.
Faccio due esempi chiarificatori di questo concetto. Il primo: i centri di formazione professionale, sono enti privati, che utilizzando soldi pubblici (della Regione, della Provincia o fondi europei) erogano un servizio pubblico essenziale parte della formazione di chi rientra nell’obbligo formativo. A Bologna il sistema della formazione professionale funziona bene perché la Provincia ha investito e continua a investire nella formazione dei tutor. È un sistema che riesce a portare al successo formativo molte persone. L’alta qualità del risultato è la prova che il controllo pubblico è efficace e che l’apertura ai privati produce una ricchezza che molte volte il pubblico, da solo, fatica a realizzare.
Il secondo: il mondo associativo, comunque privato, in tanti casi usufruisce o di fondi diretti o di fondi indiretti (sgravi sulle utenze, gratuità o pagamento parziale dell’affitto per le sedi) a fronte delle proprie attività, che venendo riconosciute di interesse pubblico vengono finanziate, sia per le competenze che il pubblico da solo non avrebbe, sia per la spesa, insostenibile dal pubblico nella sua totalità. È il caso per esempio, a Bologna, del circolo Arcigay “Il Cassero”, dove oltre alle tante attività di prevenzione è attivo un centro di documentazione che non ha pari in Italia sulle tematiche LGBT, un servizio di consulenza giuridica e tante altre cose. Il servizio svolto quotidianamente dal Cassero è un servizio pubblico, anche se agito da privati, un servizio che viene “finanziato” dal Comune ogni anno. Certo, quello delle associazioni non è un servizio educativo previsto dalla costituzione come la Scuola, di ogni ordine e grado, ma il carattere della pubblicità del servizio che compie è palese. È un esempio chiaro di sussidiarietà.
Il secondo principio a cui richiamarsi nel ragionare sul referendum è quello di realtà. I costi del welfare (tra cui sono inseriti i costi sostenuti per l’istruzione) rappresentano oltre il 50% del bilancio comunale. Quelli non si toccano e gli sforzi in fase di bilancio per farli quadrare sono, anno dopo anno, titanici, visti i continui tagli operati dallo Stato centrale nei trasferimenti di risorse.
Se solo si pensasse di gestire interamente il costo dei servizi educativi, senza contemplare il sistema integrato che vige dal 1994 nella città di Bologna, il peso sarebbe insostenibile. Non si tratta di inciucio con la Chiesa cattolica, non si tratta di incuria da parte del Comune che negli ultimi due anni ha comunque avviato14 nuove sezioni comunali per un totale di circa 350 bambini, con uno sforzo, pur in regime di educazione integrata, che va nella direzione di continuare ad aumentare i posti comunali.
Il principio di realtà ci richiama però ai numeri, e al fatto che restano liste d’attesa, anche a fronte dei 1736 bambini che frequentano i servizi delle scuole paritarie private garantiti dalle convenzioni.
L’ultimo principio a cui mi richiamo è quello del buon senso. Il sistema è il più collaudato d’Italia e contemporaneamente il più pubblico. Tante altre città o Regioni lo prevedono e lo utilizzano, secondo un principio, appunto, di buon senso. Il meccanismo è rodato, per quale motivo, se non meramente ideologico, lo si deve interrompere sapendo che le liste d’attesa resterebbero e aumenterebbe il numero dei bambini in quelle liste?
Certo, c’è un punto. A Bologna la scuola dell’infanzia è per il 60% gestita dal comune e solo per il 30 dallo Stato. Nel resto del Paese la media di scuole comunali è ferma al 9%. Questa situazione è dovuta a una eredità e a una tradizione bolognese di cui Bologna si vanta da tempo. Ma questo tempo è finito, la sostenibilità di questo impianto è a livelli critici, ma per un buon motivo: i bambini continuano a nascere anche qui e ne vorremmo di più. Abbiamo chiesto allo Stato di statalizzare una parte di queste sezioni, liberando fondi per farne di nuove, ci è stato detto che non ci sono soldi. Quindi? La domanda allo Stato e al governo continueremo a farla, ma nel frattempo i bambini e le loro famiglie debbono avere la certezza di un posto, che col sistema integrato rimane possibile, altrimenti no.
@Zaktweet