Siamo ancora sconvolti dall’ultimo caso di femmicidio che ha colpito la sedicenne Fabiana a Corigliano Calabro. La ragazza è stata trafitta a coltellate dal fidanzato coetaneo che qualche ora dopo, l’ha cosparsa di benzina e data alle fiamme quando era agonizzante, ancora viva. Siamo smarriti da una violenza così cruenta, da una spietatezza criminale apparsa tanto assurda quando imprevedibile. Sono quei casi che ci rimbalzano dentro, ci rattristano, ci angosciano perché fatichiamo a trovare spiegazioni. Tutto quello che vorremmo è che Fabiana sia l’ultima vittima di questa  perversione, di questo fenomeno ormai sempre più ricorrente.

Lo specchio di una società è dato anche da casi come questi, diffusi sull’intero arco della Penisola, prevalenti in situazioni disagiate, ma presenti anche in quadri sociali apparentemente più tranquilli e ordinari. Si prenda la vicenda di Barbara e Alessandro. Giugno 2011: siamo nel modenese: lui è bello, colto, ama il cinema d’autore, ma uccide Barbara con un coltello e un pela verdure.

Le “cronache vere” delle televisioni sono assetate, attratte dal sangue che fa audience. Tranne pochi casi (segnalo come esempio in controtendenza la trasmissione Amore criminale) si punta a mettere in scena sullo schermo forti impatti emotivi (si intervistano i genitori, i parenti, meglio se commossi), si guida la telecamera per offrire allo spettatore un occhio voyeuristico: “ecco il punto dove la ragazza è stata uccisa” oppure “quello era il suo banco a scuola e oggi è vuoto”.

Che cosa sappiamo in più da questo tipo di informazione? Poco o nulla. Resta più spesso il rumore di fondo di una cronaca sul posto che ci ribadisce quello che già sappiamo: le uccisioni di donne (amiche, fidanzate, mogli, ex) sono  un’emergenza sociale, magari per le menti già deviate diventano una moda, qualcosa che c’è, qualcosa che rende questi atti un’opzione dentro l’universo del possibile.

Quello che infatti è reale – ed è purtroppo un fenomeno sommerso – è la violenza all’interno della coppia e in ambito domestico che spesso le vittime per paura non segnalano. Uno studio di fine anni Novanta (Carmine Ventimiglia, Nelle segrete stanze) stima che solo il 17% delle donne denuncia la violenza subita. Le altre si illudono che il partner cambi (ma non cambierà mai) o vivono nel terrore di subire nuove violenze finché, nei casi più gravi, non matura l’omicidio.

Esiste una prevenzione per questo tipo di situazioni? Che cosa si insegna, ad esempio, ai bambini e agli adolescenti sui sentimenti e sui rapporti sessuali? La trama comune di questi casi che sfociano nella violenza sta in una concezione sbagliata del rapporto di coppia, concepito prima come un atto di conquista poi come un rapporto di forza. Già in questa condizione i sentimenti sono azzerati da una bramosia di possesso. Il semplice avere del maschio lo pone in una condizione di sordità e fastidio rispetto all’essere: essere innamorato, essere in ascolto, essere in reciprocità.

E come vie di fuga, quali servizi ci sono a sostegno delle donne, qual è la ramificazione nel nostro territorio di consultori, casa delle donne, centri antiviolenza? Questi possono essere i primi punti di ascolto per le vittime, prima ancora di arrivare alla denuncia, un passo che molte non vogliono compiere anche per paura di non essere credute e di accentuare il loro isolamento.

La violenza contro le donne non è né una questione passionale (come lo stereotipo italico per lungo tempo ha inteso) né una questione privata, ma riguarda tutti noi, è una minaccia che insidia la libertà personale.

Nell’aprile del 2002 l’Onu e il Consiglio d’Europa hanno riconosciuto la violenza domestica come un reato grave che lede i diritti umani. La ricezione giuridica in Italia di questo pronunciamento a che punto è? Torniamo al caso di Alessandro e Barbara: per questo omicidio Alessandro è stato condannato in primo grado a 12 anni di carcere e 6 anni di ospedale psichiatrico.

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