Più che gli stilisti, i magistrati mettono nel mirino chi di mestiere studia le operazioni di maquillage tributario. Non a caso la condanna più alta è stata chiesta per il commercialista Luciano Patelli
Luciano Patelli siede nel banco degli imputati del processo Dolce & Gabbana per omessa dichiarazione dei redditi. Il suo nome non è certamente famoso come quello dei due stilisti, ma il suo ruolo in questa vicenda di presunta maxi elusione fiscale è stato ritenuto talmente importante e fattivo dai pm Laura Pedio e Gaetano Ruta, dopo averne chiesto il rinvio a giudizio, al termine del procedimento hanno formulato la richiesta di condanna più alta: a tre anni, contro i due anni e mezzo per gli stilisti. E’ un fiscalista di lungo corso, partner dello studio Pirola Pennuto Zei e associati, ed è il consulente cui si è rivolto il gruppo della moda nel 2003 per disegnare l’architettura lussemburghese che poggia su Gado, la società che aveva acquisito i marchi fino ad allora di proprietà personale degli stilisti.
Laureato in economia e commercio, Patelli è ritenuto un professionista capace, tanto da aver insegnato diritto tributario all’accademia della Guardia di Finanza di Bergamo, e per ironia della sorte è stato incastrato proprio dalle Fiamme gialle. A lui i due pubblici ministeri hanno contestato il reato di omessa dichiarazione dei redditi definendolo “istigatore del piano illecito” del quale ci sarebbe stata “piena condivisione”.
La sua, lungi che essere una singola posizione processuale, rappresenta a tutti gli effetti una sorta di processo nel processo a carico di una categoria, quella dei consulenti e advisor che a vario titolo hanno lavorato all’operazione. Come la Price Waterhouse Coopers, che ha calcolato il valore dei marchi da acquisire in 360 milioni di euro, la cifra poi effettivamente pagata da Gado agli stilisti, da dividere in parti uguali tra i due. Ma questo valore è stato poi rettificato in 1,193 miliardi dall’Agenzia delle Entrate durante l’accertamento che ha fatto scattare l’inchiesta penale e ridotto infine a 730 milioni dalla commissione tributaria di Milano. Pwc non è parte del procedimento, ma due suoi dirigenti che hanno partecipato alla quantificazione del valore dei brand, Marco Tanzi Marlotti e Giovanni Ambrosetti, sono stati chiamati come testimoni. Per loro il pm Ruta ha chiesto la trasmissione degli atti con l’accusa di falsa testimonianza.
Gli interessi in gioco danno il senso della centralità dei consulenti in questo procedimento, e se Patelli sarà condannato, l’eco della sentenza farà in un attimo il giro di tutti gli studi di tributaristi, commercialisti, legali e quanti altri entrano in gioco in questi complicati riassetti aziendali, suggerendo operazioni che finiscono magari per oltrepassare il confine del lecito. Sono loro i custodi di queste raffinate alchimie societarie: per questo sarà importante capire se e quanto il Tribunale lo riterrà colpevole in concorso.
Nel corso del procedimento la testimonianza di Patelli è sembrata in contrasto con quelle dei dirigenti di Pwc, anche se tutti lavoravano allo stesso progetto: “non ho partecipato alla valutazione dei marchi operata da Pwc, ma ho detto loro che l’aliquota fiscale sarebbe stata del 4 per cento, ovvero quella lussemburghese”, ha detto in aula il fiscalista, sottolineando come Price sapesse dove sarebbero finiti i marchi. La variabile tasse incide in maniera inversamente proporzionale al valore del marchio: al crescere dell’incidenza questo scende, come hanno confermato anche i consulenti su precisa domanda dei pm.
Nel 2008, sentito dalla Guardia di Finanza, Ambrosetti di Pwc aveva riferito che il loro incarico era calcolare il valore dei brand in funzione di una vendita in Italia, mentre in aula ha riferito di ricordare “di aver sentito della possibilità di una vendita in Lussemburgo dai dirigenti di Dolce & Gabbana e anche dal consulente fiscale Patelli, presente alle loro riunioni”. Ma nonostante questo Pwc ha utilizzato per la base di calcolo l’aliquota italiana abbassando il valore fino ai fatidici 360 milioni. Sono stati tratti in inganno? Si trattava di un valore già predeterminato a tavolino?
Non sono emersi elementi in questo senso, ma queste incongruenze raccontano di uno svolgimento non trasparente del processo di vendita, sul quale la Corte è chiamata a fare chiarezza. A cercare di far luce, sempre con il ruolo di testi o di consulenti di parte si sono avvicendati anche i dirigenti di Interbrand, una società di consulenza cui si è rivolta la Agenzia delle Entrate per una valutazione terza dei marchi che ha confermato i valori dell’Erario. Sul banco dei testimoni anche il professor Maurizio Dallocchio della Bocconi, a sostegno però delle tesi della difesa degli stilisti, rappresentata dagli avvocati Massimo Dinoia e Armando Simbari.
In attesa della sentenza che si preannuncia apertissima l’unico dato certo è uno: a Domenico Dolce e Stefano Gabbana, difesi dall’ex studio Tremonti nella causa tributaria, l’idea di trasferire i marchi alla lussemburghese Gado è gia costata 343 milioni di euro, come ha ribadito in secondo grado di commissione tributaria a inizio febbraio, rigettando le loro istanze dopo aver perso in primo grado. Più le parcelle dei consulenti, ovviamente.