Mi ricordo di
Franca Rameper quelle sensazioni irripetibili che si archiviano nella memoria come “prime volte”.
La prima volta che ho visto sotto una luce positiva una che aveva poco meno dell’età di mia madre. Le disprezzavo, le donne adulte. Oppure mi facevano pena. Primi anni settanta, Milano, Palazzina Liberty: la guardo in scena, fuori scena, così appassionata, così ironica, così pienamente felice. Energica. Buffa. Con quel compagno “nella vita e nell’arte” che le sprigiona accanto un eros sgangherato e magnifico, che non la lascia mai. Capisco che anche “da grandi” si può essere invidiabili. Scoperta folgorante.
La seconda non è da meno: Franca Rame è bella. Bella in modo tradizionale, piena, bionda, curvilinea, procace.
Eppure non è bambola, non è stupida, non è vittima, non è preda. Si porta addosso la sua “carrozzeria” (allora la chiamavano così) con una modestia amabilmente arrogante, gioca con gli stereotipi, li usa, li rovescia, riscrive tutto un suo vocabolario di femmina,
è irresistibile.
Molti anni dopo, e per anni, ci troviamo insieme sull’astratto proscenio di tante petizioni e mozioni e lettere aperte. Frequento più la sua firma che il suo teatro. Firmiamo insieme. Contro le stesse derive, con le stesse speranze militanti.
La leggo, le rispondo, mi scrive di nuovo.
Scocciata.
Penso: “Guarda che grinta, la vecchia ragazza, vuol dire che sta meglio.”
E’ l’unica cosa che mi importa davvero. La polemica è marginale.
Sui fondamentali siamo ancora d’accordo.
A un certo punto penso a lei come protagonista della commedia tratta dal mio ultimo romanzo (Iris, 79 anni, da “Piangi pure”). Mi dicono che non sta affatto meglio, che non lavora.
Infatti.
Mi sarà difficile parlare di Franca Rame al passato, usando quel tempo del verbo. Era una così magnificamente insediata nel presente.