81 giorni di detenzione, quasi tre mesi. Sono passati due anni, ma Ai Weiwei non ne ha quasi mai parlato. E ora ce li vomita addosso tutti insieme, senza parole. La sua istallazione alla biennale riproduce gli spazi della prigionia e il video del suo primo singolo metal lo trasforma da carcerato a carceriere.
Di lui si è detto tutto e il suo contrario. E’ architetto, blogger, artista, dissidente ma – soprattutto – provocatore. Sicuramente ha capito le potenzialità della rete e dei nuovi media prima di molti. E’ con questi strumenti che ha combattuto. Ne è consapevole.
“Senza Internet, oggi io non sarei nemmeno Ai Weiwei. Sarei soltanto un artista che porta in giro i suoi spettacoli”, si legge in Weiweismi, la raccolta di “aforismi” dell’artista appena uscita per Einaudi. Raccolte per temi ci sono le frasi più forti dell’artista, quelle più significative. Ma non si coglie il senso e l’importanza di quegli 81 giorni. Quando fu rilasciato non volle parlare con nessuno. Per oltre un mese, chi voleva conoscere il suo stato di salute si è dovuto accontentare di due cinguettii su Twitter: “Sono arrivato, salve” e un autoscatto dall’alto al basso, occhi fissi nell’obiettivo.
Eppure quando alle 22:15 del 22 giugno del 2011 si è diffusa la notizia del suo rilascio, internet pareva impazzito. Era commovente la partecipazione. La gente nella notte si era riversava fuori la porta del suo studio di Pechino e in tutte le piazze virtuali. Ma qualcosa si era spezzato. Non era più il ragazzino che tornava da New York senza una laurea ma con quelle meravigliose foto della città che non dorme mai che poi sarebbero diventate famose. Né era l’architetto che progettava lo stadio a Nido d’uccello per poi prendere le distanze dalla macchina della propaganda che Pechino aveva messo in moto per le Olimpiadi del 2008. Ai oramai non è più solo il figlio del famoso poeta Ai Qing costretto alla rieducazione durante la rivoluzione culturale, né l’artista che leggeva i nomi dei figli unici che avevano perso la vita durante il terribile terremoto in Sichuan perché le scuole non erano costruite a norma.
O forse lo è ancora, ma solo nel profondo. Ciò che ha prodotto dopo il 2011 sembra rappresentare più lo sforzo di un uomo che ben conosce il mondo della comunicazione e che vuole rimanere sotto i riflettori che la potenza di un’espressione artistica. In qualche modo è lui stesso che ce lo confessa: “Mi chiedo spesso se ho paura di finire di nuovo in carcere. Amo la libertà come chiunque altro, forse piú di chiunque altro o quasi. Ma è una tragedia vivere nella paura. È peggio che perdere davvero la libertà“. E mentre cerchiamo di capirlo sperando che torni a stupirci, ci piace ricordarlo quando ancora impiegava il suo tempo a riflettere. Su se stesso, sull’arte, sulle città e sulla sua Cina.
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Dal sito carattericinesi.china-files.com
“Sono nato in un hutong di Pechino, in vicolo del Tofu, nella parte ovest della città . Poi i miei genitori si sono trasferiti, prima nel Dongbei, dove abbiamo vissuto in una foresta e poi nello Xinjiang, dove abitavamo in un fabbricato di case a schiera in stile sovietico. Ho abitato in un dormitorio e, in seguito, in una casa scavata in terra e coperta con foglie di alberi”.
“Parlare di una città è come parlare dell’anima delle persone […] Pechino è straziante: innumerevoli e immensi compound.[…] In un dato momento tutti cambiano casa, i vicini non si conoscono più e si perdono gli amici di infanzia. […] Shanghai è più comoda ma è abitata da servi arroganti […] Canton è una città per i cittadini. Ci si vive pressati, stretti, ma se si scende per strada si può mangiare, ci sono piccoli negozi. È una città fresca, viva“.
“Negli ultimi dieci anni la Cina ha avuto incidenti politici, economici e culturali a livello etnico e a livello nazionale che non hanno paragoni. La complessità e le possibilità culturali e politiche causate da tali incidenti non hanno precedenti nella storia dell’umanità. È una forza che sta nel carattere ambiguo, fatalista, indeciso, sfaccettato e cangiante della cultura cinese (che poi corrisponde alla consapevolezza di un cinese della propria posizione all’interno dell’ambiente naturale) e fa sì che le culture di questo tipo possano sempre trovare una via d’uscita in situazioni disperate, che possano sempre risorgere“.