Tutto pronto per il via libera alla vendita dell'infrastruttura a una società di nuova costituzione, una fetta rilevante della quale è destinata alla Cassa Depositi e Prestiti che la pagherà in base alla decisione finale sulla valorizzazione compresa tra 8 e 16 miliardi di euro
Per Telecom Italia si avvicina il momento della cessione della rete. E per i cittadini, oltre al danno di aver avuto per anni le bollette fra le più salate d’Europa per finanziare i dividendi ai soci, arriva anche la batosta finale. Quella che, secondo le ipotesi circolate nelle scorse settimane, appesantirà la Cassa Depositi e Prestiti, gestore dei risparmi postali degli italiani, di una quota rilevante di un asset in rame obsoleto valutato tra 8 e 16 miliardi di euro. Custodito da una società pubblico-privata di nuova costituzione che sarà prevedibilmente caricata di costi fissi (tra cui, non è escluso, parte dei dipendenti di Telecom) da finanziare con le vie tradizionali: il canone di accesso alla rete, a sua volta giustificazione per gli aumenti degli operatori, ma giustificato nel nome dei futuri investimenti in fibra. [brightcove]2420039124001[/brightcove]
Questo in sintesi lo scenario che si prospetta sul lungo termine, a valle delle consultazioni del regolatore e delle ulteriori trattative tra le parti in causa. Non prima, in ogni caso, che Telecom dia il via alle danze con la delibera sullo scorporo della rete attesa per giovedì 30 maggio, che permetterà all’indebitato gruppo di telecomunicazioni (28,76 miliardi di euro) di progettare una nuova partenza. Un passo indispensabile prima di discutere eventuali nozze con 3Italia o altri pretendenti con vantaggio di soci come Generali, Intesa e Mediobanca subentrati alla Pirelli di Marco Tronchetti Provera al controllo di Telecom nel 2007. E non senza la benedizione del governo di Enrico Letta che, sulla base della legge 56 dell’11 maggio 2012, ha “potere di veto avverso qualsiasi delibera, atto o operazione, adottata a una società” di rilevanza strategica per il settore dell’energia, dei trasporti e delle comunicazioni. E che la settimana scorsa ha incontrato i vertici di Telecom e Cdp.
Una classica operazione di sistema, insomma, che permetterà a Telecom di tornare a creare ricchezza per i soci. Azionisti che a dire il vero negli anni di denaro ne hanno intascato parecchio come testimoniano i 16 miliardi di cedole staccati da Telecom dal 2003 ad oggi. Con gli attuali che, dopo le pesanti perdite incassate in seguito al subentro a Tronchetti (oltre 5 miliardi in un quinquennio) non sono più disposti a metter mano al portafoglio per garantire lo sviluppo industriale della società. E che anzi, in vista della scadenza a settembre del patto di sindacato che lega i maggiori soci nella holding Telco (Generali al 30,58%, Mediobanca all’11,62%; Intesa Sanpaolo all’11,62% e gli spagnoli di Telefónica al 46,18%), accarezzano l’uscita dal capitale del gruppo di telefonia di cui controllano congiuntamente il 22,44 per cento.
Insomma, il salotto buono della finanza batte in ritirata e alla Telecom di Franco Bernabè non resta che correre a Roma per risolvere i danni provocati dalla finanza dopo la privatizzazione voluta dall’ex premier Romano Prodi nel 1997 e recentemente definita “sbagliata” dallo stesso presidente della Cassa Depositi e Prestiti, Franco Bassanini. Già perchè la stragrande maggioranza del passivo di Telecom è frutto delle scalate a debito effettuate, con il supporto delle banche, dalla Olivetti-Tecnost di Roberto Colaninno prima (1999) e dalla Olimpia (2001) di Marco Tronchetti Provera.
Così alla Cassa Depositi e Prestiti e ad eventuali altri soci privati da affiancare a Telecom finora rimasti senza nome, non resta che tentare di limitare i danni: possibilmente evitando di sborsare per la fetta da acquistare (le ultime ipotesi parlano di un 20-25% destinato al gruppo pubblico) più della metà del valore pro quota che Telecom vorrebbe attribuire alla sua rete. A conti fatti, quindi, allo stato attuale delle trattative, il potenziale costo per la Cassa oscilla tra 1,6 e 4 miliardi di euro a seconda che l’asset venga stimato 8 o 16 miliardi di euro. Non solo. Il nodo della valorizzazione farà discutere anche perchè attorno a questo ruota il ruolo di Telecom nella futura società della rete nella quale Cdp è candidata a entrare a operazione ultimata attraverso il Fondo Strategico Italiano e, assieme al fondo F2i di Vito Gamberale, a partecipare mettendo la propria quota in Metroweb. Azienda, quest’ultima, che per sviluppare la fibra con velocità a 100 megabit nelle principali trenta città italiane ha già previsto 4,5 miliardi di investimenti, su un totale di 15 miliardi necessari secondo l’Agenda digitale del Ministero dello Sviluppo economico per centrare gli obiettivi indicati da Bruxelles e collegare il 100% dei cittadini a 30 Mbps e il 50% a 100 Mbps, dando vita a quello che il viceministro Antonio Catricalà nei giorni scorsi ha definito un “volano per l’economia in grado di creare più di 200mila posti di lavoro”.
Telecom punta naturalmente al controllo della newco, ma gli altri operatori sono già in allarme: l’amministratore delegato di Fastweb, Alberto Calcagno, ha per esempio chiesto ad Agcom e Antitrust di vigilare dal momento che lo scorporo “non può avere come conseguenza un alleggerimento della regolazione almeno finchè persistono due condizioni: dominanza di Telecom nel mercato degli accessi su rete fissa, oggi ancora al 65%, e pacchetto di controllo sulla società post-scorporo”. Detto in altri termini, non si può permettere all’operatore privato Telecom – cui l’Antitrust ha appena comminato una maximulta (104 milioni di euro) per abuso di posizione dominante proprio nelle infrastutture di rete dopo un’indagine di tre anni – di diventare il dominus del nuovo network. Per di più a spese del salvadanaio degli italiani custodito dal gruppo Cdp che, sulla base del bilancio 2012, conta su una raccolta postale da 233 miliardi.