Sedevamo insieme in Senato. Lei, Franca Rame, arrivava sempre in anticipo e sempre carica di nuovi materiali, domande, denunce, messaggi da ogni periferia, tutti di rivolta o di disperazione. Mi diceva che voleva cominciare adesso, quella mattina, in quell’aula. Io tentavo di dirle che “la dentiera implacabile” (così cercavo, anche con disegnini, di rappresentarle le due parti apparentemente contrapposte del Senato) non lo avrebbe permesso. Infatti il presidente Marini, con lungo sospiro, le dava la parola e poi con un lungo sospiro gliela toglieva, e passava “all’ordine dei lavori” come se Franca, invece che di pace e di guerra e di disabili abbandonati e di gruppi sempre più vasti di senza lavoro, avesse parlato della difficoltà dei parcheggi . Intorno a noi stavano senatori e senatrici che lavoravano quieti, ad altre cose, decisi a non disturbare.
Di fronte a noi la canea del gruppo di attacco detto “l’opposizione”. Ovvero il mondo, fascista o borghese o pregiudicato, di Berlusconi. Un continuo forte rumore di fondo che è cominciato subito ed è finito solo con la scena di mortadella e champagne consumati in aula il giorno della caduta di Prodi. Nel frattempo De Gregorio era stato acquistato, Ignazio Marino era stato rimosso da presidente della commissione Sanità perché si temeva che mandasse al voto il testamento biologico e il suo posto assegnato a una brava cattolica passata un po’ dopo al Pdl. Quel che Franca aveva capito era che eravamo già alleati con la gente di Berlusconi, come lo sono Alfano e Letta adesso. Ma era come una sorta di matrimonio gay prima del riconoscimento legale: bisognava fingere. E non esagerare in esibizioni. Franca esagerava. Vedeva la corruzione e la denunciava. Le giungevano email sui Cie e sui pasti negati ai bambini rom nelle scuole e le leggeva in aula. Il laborioso governo Prodi non faceva caso a un sostegno così tenace. E anche i senatori che avevano fatto eleggere Franca volevano “fare politica” piuttosto che denunciare sempre e subito vita e avventure di quella (questa) squallida Italia.
Franca Rame non si è mai rassegnata, fino a dimettersi. Diceva che anche il nostro parlare e discutere e le nostre inutili strategie del mattino (liquidate prima di sera da cedimenti continui della nostra parte dell’aula) si potevano dire e fare soltanto fuori dal Senato.
Nessuno credeva che si sarebbe dimessa, ma lei lo ha fatto pur di non parlare a poltrone come vuote e porte imbottite. Mai qualcuno ha dato così tanto per un Senato, una politica, una sinistra che volevano così poco.
il Fatto Quotidiano, 30 Maggio 2013