Società

Hate speech su Facebook, una sconfitta culturale

Con un comunicato ufficiale, Facebook ha annunciato di voler modificare la gestione dei contenuti per consentire una migliore efficacia nella rimozione di tutto quanto possa risultare “minaccioso o inciti alla violenza”. La presa di posizione dell’azienda di Zuckerberg arriva dopo le proteste di numerose associazioni, esasperate dal proliferare di contenuti razzisti e sessisti sul social network. Che la reazione di Facebook sia arrivata è una buona notizia, ma non buonissima. È l’esistenza stessa del problema che è sconfortante.

Il social network più popolare del mondo è uno spazio aperto e, a suo modo, una rappresentazione della nostra società. Sulle sue pagine comunicano e interagiscono un miliardo di persone, in una sorta di villaggio globale che dovrebbe avere la forza di regolarsi da sé. In questo, Facebook non dovrebbe essere molto diverso da un qualsiasi contesto sociale, in cui i comportamenti odiosi vengono sanzionati, ancor prima che dalla legge o dalle regole, dal giudizio di chi vi partecipa.

E attenzione: qui il discorso sulla facilità con cui ci si può nascondere dietro un nickname sul web non c’entra. Uno dei pochi lati positivi della politica di ‘trasparenza’ voluta da Zuckerberg nel chiedere agli utenti di iscriversi col loro vero nome è che nessuno si può nascondere dietro l’anonimato. Certo, si può sempre usare un nome finto, ma è difficile che esista un iscritto a Facebook che goda di un reale anonimato. Anche se con un’identità fittizia, chi è dentro al network partecipa a una vita di relazione che ha le stesse dinamiche di quella reale.

Le poche volte in cui mi è capitato di leggere commenti o vedere contenuti ‘odiosi’, la mia reazione è stata di rimuovere il contatto in questione dalla cerchia degli ‘amici’. Magari accompagnando il gesto con un messaggio più o meno elaborato (ma anche ‘sei una merda’ può bastare) che spiegasse il gesto. Perché anche se virtuale, quella rete di relazioni è sempre un pezzo della mia società.

Ecco perché il virtuale dovrebbe avere un sistema immunitario simile a quello del reale. Se in un bar c’è un idiota che fa commenti razzisti, ci si aspetta che a zittirlo siano gli stessi avventori che dividono (più o meno momentaneamente) quello spazio con lui. Di certo non ci si appella al gestore del bar e nemmeno alla polizia. Di più: è ragionevole aspettarsi che l’idiota in questione non si azzardi nemmeno a fare i commenti di cui sopra, visto che lo esporrebbero alla riprovazione di chi gli sta intorno. Se tutto questo non accade, è perché la tolleranza e la semplice indifferenza si traducono in tacita approvazione. E se esiste questa approvazione, arrivare a invocare l’intervento del gestore del bar o della polizia è una sconfitta. Di tutti.