Mafie

Roberto Saviano: la prima volta che l’ho incontrato

La prima volta che ho incontrato Roberto Saviano è stato dentro gli studi della Rai di corso Sempione a Milano, tanti anni fa. Era appena terminato il primo speciale di Che tempo che fa e Loris Mazzetti, granitico dirigente Rai, mi ha accompagnato dentro quella stanzetta in cui Roberto sembrava un giocatore di calcio al termine di una partita in cui ha segnato un gol. «È andata bene?» mi ha chiesto. Io sono solo riuscito a dire «Ssì». Avevo in mano una copia del mio primo romanzo, la cui prima edizione era incredibilmente sparita in pochi giorni e Saviano aveva voluto scrivere una frase da mettere sulla fascetta della ristampa.

È sicuramente anche grazie a Roberto Saviano se ho trovato il coraggio di raccontare nel mio libro successivo, dopo anni di studi e osservazione, il mondo delle cosche che comandano a Milano e nell’hinterland, e specialmente di quelle che vivono letteralmente a pochi metri da casa mia. Mi ha sempre fatto sorridere questa cosa, non ho mai potuto evitare di pensare a Peppino Impastato, che viveva a pochi passi dal boss Badalamenti. Naturalmente mi è sempre parso un paragone stralunato, la figura di Peppino è avvolta in un velo quasi mitologico, ma questa era anche la mia di vita, nell’hinterland nord di Milano. Quotidianamente avere a che fare con gli uomini di una delle cosche più violente e potenti della ‘ndrangheta calabrese, che non si fanno problemi ad ammazzare, bruciare, spacciare.

È con tutto questo sovraccarico di attenzione e di aspettative, come credo la maggior parte dei suoi lettori, che ho aperto ZeroZeroZero (Feltrinelli), il nuovo libro di Saviano. Con l’occhio più vigile del normale, la pupilla un po’ più dilatata, nessuno spazio per la condiscendenza. E tutto, in più, amplificato dal lavoro che svolgo: pubblicare i libri degli altri, cosa che da un lato mi ha reso impermeabile alle trame e alle emozioni e dall’altro ipersensibile e maniacalmente critico e attento.

Non mi aspettavo quello che sarebbe accaduto. Nella testa avevo immaginato una scrittura che in qualche modo risentisse della fiacchezza della popolarità e di una vita passata blindato in mezzo a una scorta armata, una carenza di presa sul mondo e sulla pagina dovuta alle copertine, alla sovraesposizione, alla tv, a tutto quello a cui potevo assistere da spettatore attento a ciò che accadeva allo scrittore più popolare d’Italia.

ZeroZeroZero è tutto il contrario. Saviano in questo libro si supera, raggiunge vette che con Gomorra soltanto si intravvedevano. Con ZeroZeroZero si compie la sua formazione di filosofo e letterato nel voler dire la verità del mondo, nel voler nominare il Dio. Questa è l’ambizione di ogni scrittore, che in questo coincide col filosofo e lo scienziato. Voler raccontare la verità del mondo. Fosse anche attraverso il limitatissimo punto di vista di un piccolissimo personaggio.

L’ambizione è raccontare la verità del mondo attraverso gli occhi di quel personaggio. Né più e né meno. E Saviano in questo libro questo fa. Costruisce una grande cosmologia negativa. ZeroZeroZero è anzi la sua Teologia negativa. Il mondo viene raccontato attraverso la lente di una sua parte, il mondo occidentale, che è quello che muove il denaro e quindi stabilisce l’immaginario e i sogni anche per l’altra metà. E la verità del mondo occidentale è il risvolto di quello che si vede, è il suo Male. La verità del mondo occidentale è la sua economia criminale, che vale molto di più di quella legale, e di più decreta in segreto le sorti di noi tutti. La chiave che Saviano ha trovato per questo Timeo negativo è quello della cocaina. Valuta di scambio universale attraverso cui si possono convertire tutte le monete del mondo. Password internazionale per transazioni di miliardi di euro che stabiliscono senza che lo sappiamo le decisioni che prenderemo nelle nostre vite.

Ma Saviano fa di più, in ZeroZeroZero. Come l’artista, utilizza il reportage e il documento come alibi per fare arte. E contemporaneamente, come è nella natura dei suoi scritti, a ogni passo si contraddice. A ogni paragrafo sembra infatti e al contrario che utilizzi il reportage come alibi per fare arte, per fare letteratura. Una letteratura che, come dice David Shields in un bellissimo libro che si chiama Fame di realtà, sempre più si nutre del reale e lo risputa negli occhi del lettore nudo e crudo, soltanto un po’ masticato. Perché è questo che fa Saviano, in ultima analisi, ed è questo il suo coraggio, questa volta: non si tira indietro dal fare quello che ogni artista deve fare: nominare se stesso. Nominare l’uomo. Come dice Illich, l’uomo si sa come uomo nel momento in cui riconosce il suo grido belluino come parola significante che allerta un suo compagno.

Ecco, lì nasce l’uomo. E Saviano ha il coraggio di chiamarsi, aldilà della popolarità e della leggendarietà di cui la sua figura è stata ricoperta. Questo è il suo coraggio, ora. Non più quello del gesto in piazza a Casal di Principe, il gesto che scaccia i clan.

Il suo coraggio è nominarsi, e farlo in un modo preciso: mostro. “Io sono un mostro”, scrive. Sono diventato un mostro perché per troppo tempo ho guardato l’abisso.

Questo è ZeroZeroZero. Racconto dettagliato e ambiziosissimo, addirittura cosmologico, del Male dell’Occidente attraverso le gesta violentissime e non prive di pathos dei clan del narcotraffico italiani, colombiani, messicani, russi, cinesi, americani, albanesi. Charles Sanders Peirce l’avrebbe chiamato il foglio-mondo del Male.

Ma allo stesso tempo racconto del Male che si radica all’interno di un singolo e piccolissimo essere umano. Solo lui, l’autore. Saviano decide qui di farsi mangiare dalla sua opera, nel momento in cui stabilisce placidamente di dare alle stampe la confessione del suo essere un mostro. Lo dice, è lì davanti a tutti. Una volta per tutte l’autore, ammantando la sua opera della costruzione più ampia e ambiziosa possibili, in verità si scopre.

E con lui rimaniamo scoperti tutti. Lo scrittore, come usa fare Marina Abramovic, si scopre e si mostra ridicolo e nudo di fronte alla comunità. Ma così scopre tutti. Levando la coperta dal suo corpo la leva da quella di tutti. Tutti siamo nudi nella stanza con Marina Abramovic, tutti siamo spogliati di fronte ai suoi occhi neutri. Perché solo così si può compiere il miracolo dell’arte. Non ci sono altri mezzi. Alcuni spettatori piangono davanti all’artista, davanti alla comunità a loro volta decidono di denudarsi.

Da lettore, a questo punto, non posso che auspicarmi la liberazione totale di Roberto. E aspettare la sua prossima opera. Letteraria. Totalmente liberata.