“La grande differenza della donna fotografa è che sa guardarsi dentro prima di iniziare a guardarsi fuori”.
Questo mi ha detto Giuliana Traverso, colei che per oltre 40 anni ha condotto la prima scuola di fotografia in Italia per sole donne, aperta nel 1968 a Genova e pochi anni dopo anche a Milano.
L’ho incontrata giorni fa quando ha presentato un libro che parla di tutto questo, e che s’intitola appunto Donna fotografa (curato da Archivio Fotografico Italiano).
La sua lunga ed irripetibile esperienza ha attraversato più generazioni, e forse nessuno meglio di Giuliana Traverso ha la possibilità di tirare conclusioni e capire a fondo cosa significa, per una donna, fotografare.
Un altro libro recente, Parlando con voi. Incontri con fotografe italiane (di Giovanna Chiti e Lucia Covi), cerca di fare il punto sulla situazione attuale della fotografia al femminile in Italia; il volume presenta 34 autrici tra le più significative del panorama nazionale.
E’ fuorviante generalizzare dentro un mondo – quello della fotografia – che in realtà è una costellazione di forti individualità, tuttavia mi sono fatto un’idea, guardando da sempre con vivissimo interesse la produzione di alcune grandi autrici. A voler essere molto sintetici, l’impressione che mi trasmettono rivela spesso una capacità di approfondimento superiore rispetto a molti loro colleghi uomini.
Meno preoccupate dagli aspetti tecnici (che di solito detestano!), meno narcisiste nel fare foto destinate a stupire, hanno in genere una maggiore capacità di “empatia fotografica”, intesa come istintiva inclinazione ad occuparsi intimamente ed emotivamente degli altri, dei loro soggetti.
Nel lavoro The Julie project – per esempio – la fotografa americana Darcy Padilla documenta le drammatiche vicende umane di Julie dal 1993 al 2010, e solo alla morte della ragazza ritiene concluso il lavoro. La storia e la vita della povera Julie s’intersecano indissolubilmente con la storia la vita della fotografa.
La parola che meglio racconta l’approccio fotografico di una donna è compassione, nel suo senso più alto.
Empatia e compassione si celano spesso (come nel caso appena citato) dietro la facciata di foto dure o durissime, perché talvolta lo sguardo femminile sulla realtà e sulla società è duro, come dura può essere la vita. Duro non significa cinico. Duro, in questo caso, significa vero, onesto, magari anche politicamente scorretto. Ma sempre etico.
Quanto coinvolgimento nelle foto di Diane Arbus, Donna Ferrato, Mary Ellen Mark, Graciela Iturbide, Francesca Woodman, Nan Goldin, Carla Cerati, Dorothea Lange, Flor Garduno (solo per citare qualche nome, di varie nazionalità e di varie epoche).
Alcune, schiacciate forse dal peso caricato su di sé nel costante confronto con i lati oscuri dell’esistenza (propria o altrui), di cui è impossibile stabilire se la pratica fotografica è causa o sintomo, hanno chiuso anzitempo il loro cammino con un gesto estremo (Arbus e Woodman).
In altre continua, ossessivo, l’eco interiore delle urla di dolore registrate nelle fotografie fatte anche molti anni prima, con una grande difficoltà a prenderne le distanze per rivedere nuove luci, come ammette una grande donna prima ancora che grande fotografa, Letizia Battaglia. Ella tenta di rimarginare le ferite ancora aperte rivisitando, oggi, il senso delle sue foto sociali in una Palermo insanguinata (tra cui le intense e tragiche foto di mafia che l’hanno resa famosa), ricollocandole nel tempo e nello spazio in dialogo con nuove recenti foto che parlano di bellezza, di femminilità, di armonia. Una sorta di necessaria terapia visiva.
Segnalo, per conoscere meglio il valore di Letizia Battaglia (nomen omen), il volume Sulle ferite dei suoi sogni, scritto su di lei da Giovanna Calvenzi.
Guardare il mondo, la vita, i fatti e le persone con occhi di donna significa fotografare con l’urgenza di mettere in un rettangolo l’esito emotivo e la sintesi intima di tale visione. Così, più che per la composizione o l’originalità, le immagini di molte fotografe s’impongono a noi per la densità. Potessimo pesarle con un’ipotetica bilancia, risulterebbero dotate di un enorme peso specifico.
Per il resto, ognuna elabora uno stile proprio, aree d’interessi specifici, linguaggi diversi, né più né meno di ciò che fa ogni fotografo, senza distinzioni possibili legate all’identità.
Molte fotografe sembrano avere una tendenza naturale a creare immagini pulsanti, calde, grondanti. Foto che hanno quasi una febbre, un’ansia interna.
Se dunque la fotografia è – e dovrebbe sempre essere – anzitutto una grande passione, forse al femminile può avere davvero una marcia in più.