I diritti non sono stranieri. Oggi pomeriggio, ancora una volta, associazioni di donne e uomini che si occupano di immigrazione saranno in piazza per dirlo. Davanti a Montecitorio. Perché chi abita e lavora qui non può non essere considerato una persona, e avere i diritti che pertengono all’umano.
Ma il punto è esattamente questo: che non sono umani, gli uomini neri. Essi servono. Servono in molte guise. Servono, anzitutto, in quanto uomini neri. Che poi è il modo migliore di rendere il senso etimologico del termine “clandestino”. Clam–des–tinus. Ciò che sta nascosto al giorno. Chi sta nell’ombra. L’uomo nero, invisibile, confuso nella notte, privo di figura, di contorni, di volto, di nome, di identità. Una grande massa oscura che viene designata nella sua paurosa alterità. L’uomo nero, eterna macchina da paura.
Ed è questo il primo senso del servo: produrre paura. Di come la paura sia una formidabile risorsa politica hanno detto in tanti, e basti ricordare colui che ha pensato la sovranità politica moderna, Thomas Hobbes: l’uomo rinuncia volontariamente ai propri diritti nella misura in cui ha paura dell’altro uomo, fatto lupo. Il sistema spettacolare è lì (anche) per questo: produce fantasmi per natura, e quello dell’uomo nero è facile da produrre, è un effetto ottico di moltiplicazione. Basta parlare di immigrazione quando si parla di criminalità (basta leggere i dati raccolti dall’Osservatorio di Pavia, istituto di ricerca sui media) e il gioco è fatto, si crea un frame che resta inciso nelle reti neurali vita natural durante.
Ma quanto più gli immigrati vengono concepiti/prodotti in quanto uomini neri, tanto più vengono animalizzati e respinti ai margini dell’umano. Vengono resi, sempre di più, cose. E, in particolare, macchine produttive. Il tipo ideale del lavoratore, da sempre desiderato da un sistema fondato esclusivamente sul profitto: in quanto invisibili, essi non hanno nulla da reclamare, da rivendicare, e possono essere usati esattamente come macchine.
Ecco perché, quando dico clandestino, non mi riferisco solo agli immigrati irregolari, senza permesso di soggiorno (“illegali”). Mi riferisco invece all’immigrato tout court. Sì, perché qualsiasi immigrato è un clandestino. Un immigrato regolare, essendo la sua condizione di regolarità legata al possesso di un contratto di lavoro, può in qualsiasi momento essere cacciato nella condizione di clandestinità: un immigrato regolare è sempre un clandestino potenziale. Egli è sempre soggetto a un ricatto costante: o mantiene il lavoro alle condizioni che gli sono offerte o rischia di essere nullificato in quanto persona.
Escluso dal novero di coloro che possono godere dei diritti universali. Ma se i diritti universali sono intangibili, il fatto che egli possa perderli implica che nemmeno per lui vige l’universalità del diritto. L’immigrato regolare è già una persona inferiore rispetto al “cittadino”. E questa inferiorità è legata alla sfera del lavoro. E’ nel lavoro dunque che occorre andare a trovare le ragioni ultime di questa produzione di esseri esclusi dall’universalità del diritto.
La migliore definizione del clandestino è, da questa prospettiva, quella di “precario assoluto”. In un prossimo post spiegherò perché il clandestino è il precario assoluto, nel contesto della piramide del ricatto.