Trattativa Stato-mafia: no Rifondazione, no parti (civili)
L’obiettivo di Rifondazione comunista? E’ ‘’il superamento del capitalismo’’. Quello della trattativa Stato-mafia? E’ la “destabilizzazione”. E dunque? La trattativa non poteva creare alcun danno ai comunisti italiani che sognavano di rifondare la società abbattendo il sistema capitalistico. E’ l’argomentazione giuridica con cui l’avvocato Giuseppe Di Peri, difensore di Marcello Dell’Utri, ieri ha dissotterrato l’ascia di guerra per scongiurare la presenza, tra le parti civili, dell’unico partito che ancora nel simbolo esibisce fieramente la falce e il martello, nel processo palermitano sulla trattativa Stato-mafia. ‘’A meno di non voler sostenere che la destabilizzazione creata in ipotesi dalla trattativa mirasse al rafforzamento del sistema capitalistico – ha detto in aula il difensore di Dell’Utri – allora non vi è (in questa trattativa, ndr) alcuna lesione degli scopi e delle previsioni statutarie del Prc’’. Dell’Utri, il fondatore di Forza Italia, partito costruito sull’anticomunismo viscerale, può essere contento: perché Di Peri, alla fine l’ha avuta vinta.
La Corte d’Assise ha respinto, infatti, la gran parte delle richieste diparte civile: fuori Salvatore Borsellino, fuori Susanna Lima, fuori Sonia Alfano (con l’Associazione Nazionale Vittime della Mafia), ma fuori anche Le Agende Rosse, Addiopizzo, il Coisp, i Giuristi Democratici. E fuori, soprattutto, il Prc. Un partito che ormai è fuori da tutto, o quasi: scomparso dal Parlamento, sparito dalle cronache politiche (dell’ex segretario, Fausto Bertinotti, si ricorda l’ultima apparizione tra i testimoni alle nozze di Valeria Marini), bocciato alle ultime elezioni per le quali si era alleato con Rivoluzione Civile di Antonio Ingroia, oggi il Prc cerca di rifarsi con la lotta alla mafia. Sembra superata la stagione delle battaglie garantiste, maliziosamente rispolverata in aula dall’avvocato Basilio Milio, difensore del generale del Ros Mario Mori, che ha ricordato come ‘’in piena stagione stragista’’, la senatrice Prc Ersilia Salvato chiedeva in Parlamento l’abolizione dell’ergastolo, poi rivelatasi proprio uno dei punti del ‘’papello’’. Oggi, per schivare il rischio di estinzione, il neo-segretario rifondarolo Paolo Ferrero gioca la carta del rigore antimafia e si presenta al processo sulla trattativa reiterando la richiesta di costituirsi parte civile, già accolta nell’udienza preliminare. E’ l’unico politico presente in aula, alla prima udienza, tra i sostenitori dell’accusa. Gli altri pezzi delle istituzioni (presenti e assenti), da Dell’Utri a Mancino, sono sul banco degli imputati: l’uno per aver trescato con la mafia, l’altro per aver mentito con l’obiettivo di occultare la trattativa. Che ci fa in aula, il ‘’trombatissimo’’ Ferrero? Lo spiega lui stesso on line: ‘’Rifondazione comunista ha concorso e concorre democraticamente alla definizione della politica nazionale. Ma se lo Stato – o parti di esso – si sono mossi con obiettivi non decisi in alcun modo dal Parlamento, ci troviamo di fronte ad uno stravolgimento delle regole democratiche’’. Ragionamento che non fa una piega, al punto che il pm Nino Di Matteo, in aula, auspica un’analoga partecipazione di tutti i partiti italiani. ‘’Non solo il Prc –dice Di Matteo -ma tutti i partiti politici avrebbero il diritto di costituirsi parte civile, perché il ricatto allo Stato, veicolato attraverso la trattativa, ha espropriato le prerogative parlamentari, alterando il sistema democratico’’.
Ma la Corte ha detto no. Per il presidente Alfredo Montalto la spiegazione è esclusivamente tecnica: non ci sono i ‘’requisiti’’ per accogliere la richiesta del Prc. Manca il ‘’nesso eziologico’’, ovvero la causalità diretta tra il reato e il danno denunciato dal partito che aspira al risarcimento civile. Altra la ricostruzione dell’avvocato di Dell’Utri, che attribuisce al Prc del salottiero Bertinotti agguerrite istanze rivoluzionarie e poi le associa arditamente alla ‘’destabilizzazione’’, a suo dire provocata dalla trattativa Stato-mafia, sostenendo che le due posizioni non possono dirsi antitetiche. Forse è a quel punto che il boss Totò Riina ha avuto un malore, ritirandosi precipitosamente dalla sua postazione nel carcere di Opera: è proprio lui, infatti, ad aver teorizzato, negli anni delle stragi, che occorreva ‘’fare la guerra per poi fare la pace’’, la versione in salsa corleonese del principale claim della strategia della tensione: ‘’destabilizzare per stabilizzare’’. Mai avrebbe pensato di fare un favore a Bertinotti. E ancor meno di abbattere il sistema capitalistico. Dicono i pm di Palermo che sullo sfondo destabilizzante delle bombe ’92-’93, la trattativa serve a Cosa nostra, ma soprattutto allo Stato, proprio per ‘’stabilizzare’’: per ricostituire, cioè, un nuovo equilibrio politico-mafioso che viene poi raggiunto nel ’94 con il patto di ‘’non belligeranza’’ siglato dal governo Berlusconi. E Bertinotti? Duro e puro, sogna la sua rivoluzione in cachemire. Già nel ’96, mentre in Parlamento infuria la battaglia per l’abolizione dell’ergastolo, le cronache osannano il Subcomandante Fausto, avvistato a Capri tra i vip dei salotti isolani, come l’eroe mondano del centrosinistra.