Ho aspettato esattamente otto giorni prima di scrivere questo pezzo. Ho imparato a frenare i miei istinti, a riflettere, a raffreddarmi prima di agire. Poi, se le sensazioni permangono, allora vuol dire che non si trattava di irrazionalità e che posso sedermi alla scrivania.
“Siamo stanchi della retorica antimafia che non viene mai seguita dai fatti. Noi vogliamo fare memoria, vogliamo ricordare chi ha perso la vita per lo Stato e a Palermo la memoria non interessa più a nessuno”.
È con queste parole che Tina Martinez, moglie dell’agente della Polizia di Stato Antonio Montinaro, ha ricordato suo marito, Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Vito Schifani e Rocco Dicillo lo scorso 23 maggio, 21° anniversario della strage di Capaci. La signora Montinaro ha deciso che avrebbe ricordato la strage lontano dalla Sicilia, in Veneto, in provincia di Verona, a due passi da casa mia, e ha portato con sé quello che rimane dell’auto su cui viaggiava suo marito.
Io non sono tra quelli che pensano che chi ha perso qualcuno, chi ha pagato in prima persona la lotta alla mafia, abbia la libertà di dire tutto. Anzi, credo il contrario. Sono convinto che le nostre parole abbiano un peso specifico maggiore di quelle degli altri. Che le nostre parole debbano essere prima di tutto responsabili e degne, non solo per noi ma per i nostri cari, di cui abbiamo l’onere (ma soprattutto l’onore) della memoria. Per questa ragione Tina Montinaro dovrebbe chiedere scusa alla città di Palermo, ai palermitani, alla Sicilia. Perché quello che ha detto è un falso storico, un’accusa infamante in un momento in cui per la prima volta, a Palermo, lo Stato sta processando se stesso, un momento in cui società civile e magistratura sono protratte nel massimo sforzo per dare giustizia anche a lei e ai suoi due figli.
Già, lo dico io che sono uno scappato, che dalla Sicilia sono andato via senza più farvi ritorno, che ho dentro una rabbia di gran lunga superiore all’amore per la mia terra. Lo dico io che più volte ho aspramente criticato, a volte a torto altre a ragione, le realtà antimafia siciliane. Ma che mai ho esitato, con la stessa onestà ma con forza maggiore, ad esaltare quel lavoro costante ed essenziale che proprio esse portano avanti ogni giorno, che piova o che ci sia il sole, che si alzino con il piede destro o con quello sinistro. Loro, a differenza mia e di altri, ci sono sempre, non scappano né portano Capaci fuori dalla Sicilia.
Lo dico io perché sono un neutrale, un apolide, uno senza origini. Che da lontano ho visto cambiare Palermo e la Sicilia grazie a quelle persone che per Tina Montinaro semplicemente non esistono. Ho visto giovani capaci di dire che chi paga il pizzo è senza dignità, uomini e donne che hanno accompagnato noi familiari in un lungo percorso di elaborazione e di “messa in comune” dei nostri ricordi. Ho visto uomini e donne rischiare la propria vita e la propria tranquillità per cambiare quella regione che io ho abbandonato così com’era. A Palermo la memoria interessa eccome, a Palermo forse non si fa abbastanza, ma quel che si fa viene fatto con il cuore, con la testa e con l’anima.
E ora che ho visto posso anche dire. Dire che Antonio Montinaro è una delle vittime innocenti della mafia più ricordate e più ammirate. Posso dire che in ogni manifestazione antimafia il suo nome risuona forte e chiaro. Posso dire che grazie alle sue stesse parole, alla sua statura umana e professionale, Antonio Montinaro è diventato esempio del coraggio e dell’abnegazione della Polizia di Stato. Che grazie al ricordo composto e sobrio di suo fratello Brizio, Antonio gira l’Italia e convince tanti giovani ad arruolarsi. Nessuno ha dimenticato l’agente Montinaro, e le sue parole, incise su un nastro, restituiscono la giusta misura di quel che era: un uomo cosciente dei rischi che correva ma innamorato dello Stato. Antonio Montinaro non appartiene solo alla sua famiglia, ma è l’orgoglio di una nazione. Non può avere un copyright.
Se non lo farà lei, Tina Montinaro, chiederò io scusa a Libera, ad Addio Pizzo, all’Associazione Nazionale Familiari Vittime di Mafia, al Centro Impastato, alla Fondazione Falcone e a tutte le altre realtà che a Palermo combattono ogni giorno contro la mafia e che, in un giorno sacro come il 23 maggio, si sono sentite insultate e umiliate. A quelle realtà a cui la memoria interessa eccome. Scusate perché troppo volte per far rumore si dice che tutto fa schifo e che tutto va male, perché dire così fa impazzire i giornalisti e crea la notizia. Scusate perché sono certo che senza di voi questa regione, la Sicilia, sarebbe una terra peggiore. Scusate perché proprio noi familiari non dovremmo mai distruggere, ma solo costruire. Nel vostro lavoro non c’è retorica, ci sono solo i fatti. Grazie per quello che fate per una regione che forse grazie al vostro lavoro tornerò a considerare “mia”.