Sono andata a Parigi a vedere La grande bellezza”, di Paolo Sorrentino, in sala proprio la settimana di Cannes, dove ha avuto il meritato successo.

La grande bellezza è sicuramente un bel film. Sorrentino pensa a un cinema globale, la sua poetica e il suo modo di filmare sono quelle dei grandi maestri del cinema contemporaneo, da Haneke, a Wong Kar-wai. E il soggetto del film è sublime in tutti i sensi, quella ricerca dell’assoluto, della rivelazione, di una perfezione di sé e delle cose che in alcuni istanti forse abbiamo intravisto, e poi di nuovo perso. Quel sentimento così perfettamente descritto da Walt Whitman in “Foglie d’erba”: “There was never any more inception than there is now; Nor any more youth or age than there is now; 
And will never be any more perfection than there is now,
 Nor any more heaven or hell than there is now”. Il poeta sa che quella grande bellezza è la sua meta e il suo rimpianto. E Sorrentino è sicuramente un poeta.

In più, i riferimenti cinematografici e letterari – da Fellini a Scola, da Moravia a Flaiano – sono perfetti per far piacere questo film a un pubblico internazionale colto di italianofili, come è per esempio il pubblico francese. Eppure, c’è un tratto che salta immediatamente agli occhi a chi, come me, ha visto questo film fuori dall’Italia, e mi chiedo se Sorrentino ne sia consapevole oppure no.

E’ la misoginia profonda del film che lo rende provincialissimo e tutto italiano.

La passerella delle donne del film non è solo caricaturale, come quella degli uomini. E proprio aggressiva. Quando aprono bocca, le donne di Sorrentino, se sono vere donne, dicono idiozie. Le uniche donne stimate e amate sono una nana, intelligente e materna direttrice di giornale, e un’altrettanto materna e anziana donna delle pulizie. Ah, e infine una santa centenaria. Ossia figure femminili non sfidanti, sicuramente non sessuate, e dunque rassicuranti.

Le altre sono un disastro. Facciamo una breve carrellata. Cominciamo dall’artista, una sorta di Marina Abramovic che picchia la testa contro il muro in una performance romana. Jep Gambardella la intervista per il suo giornale. La pseudo-Abramovic gli dice che è ispirata dalle vibrazioni. E Gambardella la prende in giro dicendo che non sa di cosa parla, chiedendole insistente una definizione di “vibrazione”. La sua parola non è presa sul serio, lei si difende, ma diventa ancora più ridicola, guadagnandosi una sarcastica stroncatura sul giornale. Mi chiedo se Sorrentino sappia definire una “vibrazione”, che è un fenomeno acustico complesso, e se abbia mai ascoltato un artista spiegare la sua opera. Sono tutti ugualmente confusi, maschi e femmine, perché la spiegazione non è il loro canale di espressione che è, appunto, l’arte o la performance.

C’è poi l’amica di Verdone, lo scrittore di provincia deluso da Roma. Una vera stronza, finta bella, che si crede chissà chi, che sfrutta l’ometto senza dargli alcuna soddisfazione, presa dal suo narcisismo di attricetta e commediografa.

Passiamo alle serate sulla terrazza. La scrittrice intellettuale comunista, “donna con le palle,” che si azzarda a criticare l’unico libro pubblicato da Jep, si rivela, in un rito di umiliazione collettiva al quale l’ospite la sottopone, l’ex amante del segretario del Partito, famosa da giovane più per le sue attività nei bagni dell’università che per la sua penna, pubblicata da una casa editrice fasulla vicina al Partito, moglie di un uomo che tutti i giorni pranza con il suo amante…La donna non replica, se ne va offesa, e alla festa successiva ha già perdonato Jep, anzi, meditano di andare finalmente a letto insieme, ora che lei è umiliata ed è stata rimessa al suo posto (perché se fosse stata una vera scrittrice e intellettuale, pussa via!)

La Ferilli, spogliarellista semianalfabeta e vestita da prostituta di quart’ordine, riesce a intenerire Jep, e per fortuna la tenerezza non si trasforma in sesso, perché si scopre che lei è malata di AIDS all’ultimo stadio e presto uscirà di scena.

Poi la bella e ricca milanese, Isabella Ferrari, si permette di fare un commento sul suo libro in una passeggiata serale con Jep, e lui risponde subito che è quello che aveva detto Moravia, solo che Moravia l’aveva detto meglio. Lei non replica gentile (se fossi stata al suo posto, si sarebbe beccato un sonoro ceffone). Salgono nella casa di lusso della signora in Piazza Navona, fanno l’amore con indifferenza, e quando lei vuole mostrargli le sue foto, una cosa insomma a cui lei tiene, lui se ne va senza nemmeno salutare.

L’unica donna amata è il fantasma della giovinezza, quella grande bellezza intravista in un primo amore consumato in fretta e non sbocciato. La donna assente, angelicata, immaginaria. Perché da quelle vere è meglio stare alla larga. Anche l’uomo che infine questa giovane ragazza sposò, lasciando solo Jep, marito innamoratissimo che si confida con Jep alla morte della moglie amata, si risposa di lì a poco con una polacca che stira e fa da mangiare, una specie di badante non aggressiva con cui guardare al massimo un po’ di tivù la sera.

Il grande provincialismo italiano, ormai invedibile con gli occhi di chi sta fuori, sono i rapporti regressivi tra uomini e donne: la donna vista ancora come puttana o come madonna asessuata e, se intelligente, allora frigida e psico-rigida tutta posa e niente sostanza che non ha capito nulla della vita. La decadenza dell’Italia, così ben descritta in questo film, non avrà proprio il suo fulcro in questa impossibilità di rapporti veramente pari tra uomini e donne?

Certo che, reduce da tre stagioni di fila di Borgen, la serie televisiva danese culto in Europa sui rapporti di potere tra uomini e donne, mi chiedo come l’Italia possa ridurre il suo spread ormai alle stelle sulle questioni di genere. 

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