E' un prodotto irrinunciabile sulle tavole degli italiani, ma anche molto malleabile: è possibile raggiungere i parametri qualitativi richiesti con qualche "aggiustamento". E è anche legale, entro certi limiti. Ma una prassi del genere apre le porte al rischio di frode
Se c’è un prodotto irrinunciabile per le tavole degli italiani, questo è senza dubbio l’olio d’oliva. Protagonista della tradizione culinaria nostrana, rappresenta per tutto il bacino del Mediterraneo un elemento fondamentale anche in termini industriali. Ogni anno nel mondo si consumano oltre due milioni di tonnellate d’olio d’oliva e questo richiede enormi quantità di olio di qualità e prezzo standard da poter distribuire in tutti i supermercati del mondo.
Dalle olive alla tavola
In Italia l’olio in commercio è per la maggior parte extravergine, la categoria più alta, seguita da “vergine” e “lampante”. L’olio “lampante” non è considerato commestibile, il nome deriva dal suo utilizzo in passato come combustibile per lampade, ma spesso viene “lavato chimicamente” e reso commestibile. Questa categorizzazione è regolamentata dal Consiglio Internazionale dell’Olio di Oliva, un istituto internazionale che raggruppa le nazioni produttrici di olio d’oliva, che gestisce il mercato internazionale dell’olio e stabilisce i parametri per i test di qualità.
Essendo l’olio un prodotto molto malleabile, è possibile – tramite miscelazione – raggiungere i parametri qualitativi richiesti. Di conseguenza, la maggior parte dell’olio venduto nel mondo è una miscela di oli di diversa origine e qualità. Questa è una pratica perfettamente legale, oltre che universalmente adottata.
Il mercato del falso
Una prassi del genere apre le porte al rischio di frode, promuovendo un sistema in cui le tentazioni a commettere irregolarità sono elevate. Olio importato da Spagna, Tunisia e Grecia viene rivenduto come extravergine prodotto in Italia: un fenomeno in crescita che nel 2011 ha raggiunto il suo massimo storico con 584mila tonnellate di olio importato, a fronte di una produzione in calo a 483mila tonnellate.
Il panorama internazionale vede oggi l’Italia come centro nevralgico del commercio di olio, mentre la Spagna rappresenta il cuore produttivo, con una produzione annuale circa quattro volte superiore alla nostra. Grecia e Tunisia producono quantità minori, esportando generalmente il meglio della loro produzione, che diventa elemento “correttivo” delle miscele fatte con oli dal sapore cattivo. “In generale la quantità di olio italiano all’interno di una bottiglia ‘Made in Italy’ non supera mai il 5-10%”, afferma un importante imprenditore olivicolo italiano che intende rimanere anonimo.
I signori dell’olio infatti non spremono più, ma importano e trasformano: molto meno costoso e più redditizio. Manipolano, deodorano, profumano. Un flusso ininterrotto di miscele di oli “comunitari” e “non comunitari” che viaggia ogni giorno da e verso l’Italia, da sud a nord, a bordo di tir e navi cisterna.
Gli intermediari dell’olio: il caso Valpesana
Fondamentali attori di questo business sono gli intermediari: aziende specializzate nel comprare e rivendere olio sfuso, figure cardine tra produttori e i distributori. Queste aziende producono miscele altamente tecnologiche, con oli raffinati sempre più perfetti, a prova di qualsiasi test di laboratorio, o quasi. Una delle aziende intermediarie piu’ importanti per quantità d’olio trattato e giro d’affari è, senza dubbio, la toscana Azienda Olearia Valpesana.
Il 14 maggio 2012, la Guardia di Finanza e l’Ispettorato centrale repressione frodi, sotto lo stretto coordinamento dalla Procura di Siena, sequestravano alla Valpesana oltre 8mila tonnellate di olio. Secondo gli inquirenti, si sarebbe trattato di olio “falso”, contrassegnato cioè sia per origine che per qualità in modo fraudolento. Per effettuare tale operazione Francesco Fusi, titolare dell’azienda, e a suo tempo posto agli arresti domiciliari, si sarebbe avvalso di grandi capacità di miscelazione e di taglio, soprattutto con gli oli spagnoli. Sono infatti consistenti le partite di olio che Fusi acquistava dalla Spagna, grazie all’intermediazione di Rosa Moliterno, titolare nel paese iberico di alcune grosse imprese di olio.
Proprio nell’olio che arrivava a Aov dalla Spagna però, gli inquirenti avrebbero identificato la presenza di olio deodorato, sia grazie alle intercettazioni che ai test di laboratorio. L’olio deodorato è olio che ha subito una particolare pulitura per rimuoverne difetti e cattivo odore. Il procedimento, di natura chimico-fisica, avviene sottoponendo l’olio a distillazione in corrente di vapore sotto vuoto a temperature elevate (200° C). Il cosiddetto “deodorato soft”, è invece una miscela di olio deodorato e oli normali, molto difficile da scoprire.
L’ex dipendente Aov Fabio Lattanzio ha dichiarato agli inquirenti che il deodorato entrava in azienda come prodotto A e prodotto B. Il prodotto A aveva alchil-esteri nel limite grazie al “lavaggio” svolto dai fornitori spagnoli, mentre al B corrispondevano extravergini con alchil-esteri fuori dai limiti di legge. A e B di solito venivano mischiati nelle normali operazioni di taglio operate dalla Valpesana. Il lavaggio sarebbe avvenuto sempre in Spagna sia su vecchi extra vergini con alchil-esteri alti oppure su lampanti (in alcuni casi semplicemente riscaldando i serbatoi per fare evaporare metanolo ed etanolo, generatori di alchil-esteri).
Per rafforzare l’ipotesi accusatoria, il titolare dell’indagine, Aldo Natalini, ha deciso di avvalersi anche di analisi all’avanguardia che potessero scovare il deodorato. Giovanni Lercker, professore del dipartimento di Scienze degli Alimenti dell’università di Bologna, ha testato i campioni di olio sequestrato con metodi sperimentali, che avrebbero dimostrato la presenza del “deodorato-soft”, largamente diluito con altri oli e per questo non rilevabile dalle analisi standard.
Rispetto a queste accuse Francesco Fusi si difende: “Vorrei precisare che la normativa di riferimento è il regolamento della Cee 2568 del 1991 e successive modifiche che già prevede un quadro analitico molto complesso per definire un olio extra vergine. Ritengo che un’indagine non sia il contesto corretto nel quale procedere ad analisi sperimentali che, invece, dovrebbero prima essere validate nell’ambito di contesti scientifici, e solo in seguito applicate nell’ambito di procedure giudiziarie”. Il commento di Fusi alimenta l’urgenza di nuove e più efficaci normative che regolino il mondo dell’olio d’oliva.
Ciò detto, quando si ha a che fare con grandi carichi di olio, come quelli movimentati dalla Valpesana, è necessario investire grandi risorse nella migliore tecnologia olivaria. Considerando le grandi quantità di olio che restano invendute ogni anno (specialmente nell’enorme produzione spagnola) destinate a scendere di categoria e di prezzo,resta il sospetto che alcuni produttori giochino una partita oltre le righe. Ora che la Procura ha chiesto il rinvio a giudizio per Fusi e altri otto imputati, oltreché per la persona giuridica società, stabilire se mandare tutti a processo oppure prosciogliere sarà compito del giudice Monica Gaggelli.
di Giulio Rubino, Lorenzo Bodrero, Cecilia Anesi
“Food for Fraud”, inchiesta prodotta da Irpi e finanziata da Journalismfund.eu. Supervisione di Leo Sisti
La Corte di Appello di Firenze, all’udienza del 22 settembre 2020, in parziale riforma della sentenza di primo grado, ha assolto, perché il fatto non sussiste, Francesco Fusi dal reato di associazione a delinquere e da numerosi episodi di frode in commercio, mentre ha dichiarato la prescrizione per altri 3 capi d’imputazione, relativi ai reati di frode in commercio e vendita di sostanze alimentari non genuine come genuine aggravati.
Aggiornato da Redazione web il 29 marzo 2021