Sorseggiavo la mia tisana appoggiata al muro della casa-ufficio, osservando l’umidità salire dai boschi di eucalipto in nuvole dense di acqua, il fango normalmente onnipresente che si era già in gran parte trasformato in polvere, segno di una stagione secca ormai iniziata, il fumo dei fuochi filtrare a fatica dai tetti di paglia, come fosse ingabbiato. Come sempre, mi chiedevo il perché dell’assenza di camini, mentre incoraggiavo distrattamente un geko minuscolo, ancora trasparente, ad arrampicarsi su un muro per sopravvivere. Il silenzio era cristallino, rotto solo dalle voci di donne che, fagotti in spalla o sulla testa, si recavano ai campi, o da gruppetti di bambini in uniformi rattoppate e approssimative in cammino verso la scuola… quanto camminano, qui, tutti.
Guardavo queste scene di risveglio chiedendomi come avrei potuto spiegare la vita di una donna di qui.
Il giorno prima, durante la riunione di un’associazione di risparmio e credito con cui lavoro, una donna mi aveva raccontato di aver non essere in grado di ripagare il credito che aveva contratto. In un francese zoppicante ma chiaro, evidente lascito di un’educazione d’altri tempi, con un tono neutro e un mezzo sorriso sulla bocca mi aveva spiegato di essere vedova e che, dopo la morte del marito, il suo primogenito l’aiutava ad occuparsi della famiglia. Aveva dato a lui tutti i soldi, perché potesse recarsi al grande mercato settimanale a tre ore di cammino per comprare due sacchi di fagioli da rivendere vicino casa, in un villaggio sulle colline ai confini della foresta, molto lontanto dalla strada. Lì da loro di fagioli non ne producono e normalmente era un commercio abbastanza sicuro. Ma non era mai tornato.
Le ho chiesto, allarmata e incapace d’interpretare il suo tono, quando fosse partito. Mi ha risposto, come distante: “Quattro settimane fa. Ho camminato fino a Bukavu (capoluogo della provincia del Sud Kivu, a circa quattro ore di marcia spedita) già tre volte da allora. L’ho cercato in tutti gli ospedali, ma non l’ho trovato. Ci tornerò nei prossimi giorni, ma ormai credo che sia morto.”
Mi si è raggelato il sangue nelle vene. Forse per via del suo tono, dell’assenza, almeno apparente, di ogni traccia di preoccupazione o angoscia. Forse perché sapevo che la sua associazione avrebbe diviso quel giorno i proventi di un anno di risparmi e crediti e che, se lei non fosse riuscita a rimborsare il suo debito, tutti i suoi risparmi sarebbero stati annullati, in modo da ridurre le perdite del gruppo.
Sapevo che sarebbe rimasta senza niente; sapevo anche di non poter intervenire. Ho imparato che mantenere una certa distanza dai drammi individuali è l’unico modo per mantenere saldi i nervi, per non reiterare l’idea di “bianco sempre ricco a cui chiedere sempre e comunque qualche soldo”, per non incoraggiare l’ennesima generazione di lattanti a cui viene insegnato a mendicare di fronte ad ogni mzungu (bianco, in swahili), poco importa che sia necessario o no, ma non è facile capire quanto si possa essere distanti senza diventare inumani. Qual è il limite, quale la giusta proporzione?
Non ho potuto far nulla, se non ripetermi che non si può quasi mai giudicare, forse nemmeno capire. Si può compatire, ma non intuire cosa voglia dire essere madre, figlia o sorella, quando la vita è così imprevedibile, la morte tanto quotidiana e la sopravvivenza tanto potente.
Ho passato i giorni successivi a domandarmi se avrei dovuto, o potuto, fare qualcosa, quale sia il mio ruolo in un mondo in cui la sopravvivenza è tanto dura e al contempo la forza d’animo tanto diffusa.
Non ho saputo trovare risposta.
Credo che questo sia il dilemma più duro del mio lavoro, quello che fronteggio ogni giorno, consapevole di non poter cambiare le sorti del mondo, ma anche spaventata all’idea di perdere generosità e umanità.
Qual è il mio ruolo, il ruolo della mia persona, e non della mia pelle bianca, né del mio lavoro, in un villagio tra le colline, al confine della foresta, a qualche ora di cammino dalla strada, nel centro dell’Africa?
Difficile darsi una risposta che vada bene fino in fondo. Forse, per stare a galla, si deve sempre fare solo un passo alla volta.