Un timido ragazzino che amava scrivere versi all’ombra degli alberi con un block notes in mano: immagine delicata e silenziosa, che sembra scaturita dalle pagine di un libro d’antan , ma che non si fa fatica a reputare sincera quando ci si trova di fronte a quell’ex adolescente, oggi giovane uomo, giudicato uno degli astri nascenti della musica inglese, erede di Nick Drake e Bob Dylan. Jack Savoretti, classe 1983, professione songwriter, fa un sorriso: “certo, sono paragoni che fanno piacere, ma non è che abbiano questo peso enorme. Cerco solo di scrivere la mia, di musica”. La voce tradisce una certa emozione per il suo primo tour italiano, un debutto in quella che è la sua seconda patria, e che toccherà Bologna mercoledì 5 giugno (Bravo Cafè, via Mascarella 1, info 051266112). Figlio di padre italiano e madre polacco-tedesca, Jack è nato e cresciuto a Londra: “è strano, in ogni parte del mondo mi sento italiano, ma quando mi trovo qui viene fuori la mia parte anglosassone. Sarà che l’Italia è più facile viverla da turista che da cittadino”. La musica l’ha conosciuta a 16 anni, quando la madre gli ha regalato una chitarra suggerendogli di mettere in musica le parole silenziose annotate sul quaderno. Da allora non si è più fermato.
Tre date italiane per presentare il suo ultimo cd, Before the Storm, masterizzato nei mitici studi di Abbey Road: un album delicato ed intimista, fatto di ballate melodiche e avvolgenti, che parlano di storie di vita, amori, sconfitte e risalite, che sanno correre sul filo della grazia compositiva senza mai scadere nel banale. La forza evocativa di chitarra e voce in tutta la loro potente semplicità.
Musica e poesia sono le cifre della tua esperienza personale ed artistica: quale espressione trovi a te più congeniale?
Credo che siano inscindibilmente legate, che l’una derivi dall’altra. Da piccolo la poesia era per me un rifugio, il mio amico immaginario per così dire, il mio angolo di mondo. Poi ho scoperto i cantautori: Simon & Garfunkel per primi mi hanno fatto capire quale potenza espressiva poteva avere la musica che fino ad allora associavo allo spazio un po’ vacuo del divertimento fine a se stesso. La musica oggi è la mia strada, ed è in primo luogo uno spazio di apertura al mondo. E’ difficile andarsene in giro a declamare le proprie poesie, senza contare che nei confronti della scrittura poetica c’è un rapporto di difesa più gelosa di uno spazio personalissimo: la musica è invece linguaggio universale, è contatto immediato, apertura all’altro.
Che cos’è la tempesta cui fa riferimento il titolo del tuo disco, Before the Storm?
E’ un sentimento di paura, anzi di vero e proprio terrore nella fase del passaggio all’età adulta. Da giovane passi ore a criticare il mondo dei grandi, e in un momento ti ci ritrovi tu e ci devi fare i conti. Ho vissuto momenti di grande ansia, dopo il secondo album volevo buttare tutto all’aria, avevo ricevuto fin troppe batoste, non capivo bene né cosa stessi facendo né perché. Poi in un lampo ho capito che la musica era l’unica cosa che volevo fare, ed eccomi qui, alla fine della tempesta.
Che effetto ti ha fatto entrare negli studi di Abbey Road?
E’ stato incredibile. Perché a dire il vero appena ci entri dentro vedi solo una serie di corridoi che lo fanno assomigliare ad un ufficio: poi entri nelle sale di registrazione e ti rendi conto che c’è l’odore stesso della musica, di storia, di altri tempi. Da un lato il pianoforte di Paul Mc Cartney, tutto attorno oggetti appartenuti ai grandi della musica, e contemporaneamente la vaga sensazione di essere in una vecchia palestra anni Cinquanta. E’ qualcosa di difficilmente descrivibile.
Cosa c’è di irriducibilmente italiano in te? E com’è l’Italia vista da uno sguardo esterno, a livello musicale e non solo?
Musicalmente sono cresciuto con i dischi di mio padre, da Lucio Battisti in poi, e questo mi ha senza dubbio condizionato. Per qual che riguarda l’Italia mi è difficile dare un giudizio, non vivendoci, ma posso dire che vista dall’esterno la situazione è piuttosto scoraggiante. Mi capita spessissimo di incontrare italiani all’estero, e si ripete sempre la storia degli esuli fuggiti per poter dare al proprio talento il giusto spazio, qui mortificato. L’italianità è una definizione piuttosto complessa, forse in nessun’altra cultura convivono così tante contraddizioni, l’onestà e la furberia, l’arte del raggiro e il rigore morale e tanto altro. Da anglosassone la trovo bellissima da turista, ma credo che vivere qui debba essere piuttosto faticoso.