La settimana scorsa una donna di circa 30 anni è stata trovata morta, con accanto la sua bambina di 3 anni, in un appartamento di Osaka. Accanto ai corpi in avanzato stato di decomposizione (“c’erano solo ossa e vestiti, e un’enorme macchia sui tatami, che evidentemente avevano assorbito gli umori”, ha riportato la Fuji Tv, l’unico media nazionale a riportare la notizia) un biglietto: “Non sono riuscita a nutrirla”. La polizia, chiamata dai vicini per via degli odori divenuti oramai insopportabili, ha trovato un appartamento in condizioni di assoluto degrado, privo di frigorifero, utenze staccate da mesi.
Impossibile, in queste condizioni, stabilire una data certa per la morte: ma secondo la polizia potrebbe risalire addirittura allo scorso febbraio. Da quando cioè la donna aveva pagato l’ultima bolletta. E’ l’ultimo caso, almeno l’ultimo affiorato, di kodokushi: la “morte in solitudine”. Un fenomeno in preoccupante aumento in una società sempre più “polverizzata”, dove le relazioni non solo sociali ma anche familiari sono sempre meno solide, creando stress, disagio, depressione. Ma è anche la prima volta che la kodokushi non riguarda persone anziane e spesso malate, ma una govane donna e la sua bambina.
“Siamo difronte ad un caso davvero estremo – spiega Masaki Ichinose, sociologo e direttore dell’Istituto per gli Studi sulla Vita e sulla Morte che la prestigiosa Università di Tokyo ha aperto qualche anno fa, visto l’emergere del fenomeno – in questa morte si condensano tutti i problemi della nostra società: la crisi economica, la crisi della famiglia e delle relazioni sociali, l’assenza delle istituzioni. Siamo arrivati al punto che la morte, con la quale noi giapponesi abbiamo sempre avuto un ottimo rapporto, è diventata una vergogna. Non abbiamo più il coraggio di viverla come esseri umani, ma come i gatti: nascondendoci, isolandoci. In dignitosa solitudine”
Non ci sono ancora statistiche vere e proprie che isolino i casi di kodokushi da quelli, più in generale, delle morti “volontarie”. Spulciando tra le statistiche fornite dal Ministero della Sanità, abbiamo trovato solo un dato riferito alla capitale, Tokyo, dove nell’anno fiscale 2012 (che finisce a marzo) i casi di kodokushi sono stati 2.718, il doppio rispetto a 6 anni fa. “Ma si tratta di dati non ancora elaborati – ci hanno spiegato al ministero – spesso è difficile stabilire se si tratta di suicidi veri e propri, o di vicende iniziate magari con un piccolo incidente e precipitate in tragedia a seguito del disagio affettivo, sociale ed economico”
Il professor Ichinose è d’accordo: “L’accostamente non può essere automatico, anche se lasciarsi morire, letteralmente, di fame e di stenti, è una delle forme più estreme, coraggiose e dolorose, di suicidio. Ancora oggi c’è chi si reca nella foresta Aokigahara, ai piedi del monte Fuji, e si lascia morire di inedia. Ma sono sempre di meno. Oggi ci si lascia morire in casa, senza neanche aprire il rubinetto del gas, che spesso è staccato. Associare le “morti solitarie” con i suicidi (oltre 32 mila l’anno, più di 80 al giorno, 3 ogni ora, n.d.r.) non è statisticamente corretto, ma socialmente lo è. E segna il progressivo imbarbarimento della nostra società, un tempo armoniosamente unita attorno alla famiglia, al vicinato”.
Non più. Le possibilità che un anziano finisca per vivere solo, in Giappone, sono aumentate del 50% negli ultimi venti anni. E’ l’incremento più alto registrato dai paesi dell’Ocse. Nel 1980 gli uomini di oltre 60 anni che vivevano soli erano 190 mila, nel 2000 erano oltre un milione, oggi quasi due. Le donne sono quasi il doppio. E la maggior parte degli anziani, in Giappone, rifiuta l’idea di vivere nelle ancora poche, anche se in aumento, case di riposo, sia pubbliche che private. Non solo. Spesso rifiutano anche solo di prendere in considerazione l’idea di chiedere aiuto alle istituzioni, che pur hanno predisposto, soprattutto nelle grandi città, dei programmi di assistenza e di sussidio econiomico adeguati ed efficaci. “Ma i giapponesi non amano chiedere aiuto – spiega Ichinose – preferiscono arrangiarsi da soli, o al massimo in famiglia”.
Il problema è che la famiglia, “quel” tipo di famiglia che aveva un ruolo (e un posto letto…) per i nonni non c’è più. E i nonni, anche quelli che una famiglia ce l’avrebbero ancora, finiscono per essere, progressivamente abbandonati. Chi può torna nella vecchia casa di campagna, ma la maggior parte finisce in un minuscolo appartamento, dove figli e nipoti magari pagano anche l’affitto e le bollette, ma raramente si fanno vivi. “E’ un processo lungo, a volte, ma irreversibile – spiega il prof. Ichinose – prima si ammala o muore uno, poi l’altro entra in depressione e comincia a rifiutarsi di uscire, prepararsi da mangiare. La cosa più terribile è che spesso della loro scomparsa parenti e amici se ne accorgono dopo mesi, addirittura anni. E a volte per puro caso”.
Issei Suzuki è un imprenditore “sociale”. Vuole lavorare e guadagnare, ovviamente, ma possibilmente svolgendo un ruolo utile. In passato ha lavorato in una cooperativa di prodotti biologici, e in un’altra che si occupava di assistenza a domicilio per anziani e disabili. Oggi si occupa di “pulizie”. Pulizie molto particolari, pulizie che, come si legge nella sua home-page “non sono certo divertenti, ma che qualcuno deve pur fare”. La sua società, che per ora ha una sola sede, nell’isola di Hokkaido, ha un nome un po’ lungo e angosciante: jiken genba tokushu teisou sentaa (“Centro per la ripulitura dei luoghi di “casi”). Dove per “casi”, in una lingua e una cultura che non ama chiamare le cose con il proprio nome, si intendono, morti più o meno violente.
“In Giappone la legge impone agli agenti immobiliari di segnalare ai possibili acquirenti o locatari l’esistenza di un caso – ci spiega il sign. Suzuki – ma in passato si trattava sostanzialmente di omicidi, che dalle nostre parti sono pochissimi. Ora invece trattiamo soprattutto casi di kodokushi. Sono in grave aumento, dappertutto nel paese. E la gente non ne vuole sapere. Sono letteralemente terrorizzati. Sapere che in una casa c’è stato un suicidio è una cosa, ma che sia stato teatro di una morte per abbandono fa scappare la gente. Mi creda, delle volte, quando entriamo in una casa che dobbiamo ripulire, ci viene davvero il voltastomaco”
Il suicidio, che oramai non avviene più nelle forme tradizionali ed esaltate da una copiosa e non sempre rigorosa letteratura (il famoso seppuku/harakiri) fa parte della tradizione di un popolo che ha sempre avuto un rapporto razionale, aperto, con la morte. Contrariamente all’occidente, dove il suicidio è (per la religione cattolica) un “peccato” e l’istigazione addirittura un reato, in Giappone togliersi la vita in modo più o meno rituale, più o meno pubblico è considerato un modo più che onorevole di “ritirarsi”. E’ anche un modo per assicurare ai sopravvissuti una vita tranquilla: le polizzze vita prevedono infatti, caso unico nel mondo industrializzato, il pagamento dell’indennizzo anche in caso di suicidio.
Ma il fenomeno del kodokushi, anche se può essere tecnicamente definito un suicidio differito, è qualcosa di più e di peggio. L’idea che migliaia di persone anziane– perchè di questo si tratta – muoiano in casa, senza che nessuno se ne accorga per mesi e per anni è davvero angosciante. Che poi questo succeda ad una govane donna, con la sua bambina, fa pensare davvero a che razza di società abbiamo costruito. E non consoliamoci/assolviamoci perché questo è accaduto, accade in Giappone. Sicuro che da noi non potrebbe accadere? Chi ha la fortuna di avere ancora i propri nonni, li tenga da conto. Magari andandoli a trovare, facendo una telefonata, un po’ più spesso.