E’ come una partita di calcio: Riva subisce un gol e l’arbitro lo annulla.
E’ la terza volta che il governo entra nella partita e cambia le regole del gioco. Prima nel 2010 (con il dlgs 155/2010 che rimuoveva il limite al benzo(a)pirene), poi nel 2012 (con la legge 231/2012 che annullava il sequestro degli impianti ordinato dalla magistratura) e infine adesso con l’attuale decreto che dissequestra i capitali del gruppo Riva e nomina come commissario dell’Ilva un uomo di fiducia dei Riva.
Tre provvedimenti che sono stati soprannominati “Salva-Ilva” in tutte e tre le occasioni. Volete sapere come e’ andata tutta questa faccenda?
Prima mossa: Berlusconi
La “prima volta”: 13 agosto 2010. Mentre molti italiani erano sotto gli ombrelloni, il governo Berlusconi eliminava (con una norma inserita nel dlgs 155/2010) il limite sul benzo(a)pirene. Questa sostanza e’ un potente cancerogeno per i polmoni ad effetto anche genotossico (può modificare il Dna trasferito dai genitori ai figli). Da quel giorno veniva tolto il limite per un paio di anni. Ilva era salva.
E così l’Arpa Puglia, che aveva addebitato alla cokeria dei Riva la massima responsabilità nel superamento del limite in aria ambiente per tali emissioni cancerogene, veniva messa fuori gioco. Game over per l’Arpa di Giorgio Assennato. Il gol dell’Arpa veniva così annullato e l’azienda telefonava a Vendola, che rispondeva: “Non vi preoccupate, non mi sono defilato“.
Ma la storia non finì con il decreto legislativo 155/2010 che consentiva di respirare a pieni polmoni una sostanza mortale. Anzi cominciava proprio lì la parte più scabrosa dell’inchiesta della Procura: l’investigazione sui rapporti fra i Riva e la politica. La questione ormai non riguardava più solo il formaggio alla diossina e l’aria al benzo(a)pirene, ma toccava il cuore del sistema di potere locale. Politici che chiudevano un occhio o entrambi di fronte ad un inquinamento mortale.
La vicenda della cokeria è del 2010 e da quel momento parte la controffensiva dei Riva. Un vorticoso fiume di telefonate a politici accomodanti.
Infatti la magistratura, intercettando il giro di telefonate di Girolamo Archina (portavoce Ilva), è riuscita a costruire la ragnatela di potere tessuta a Taranto attorno a chi inquinava.
Seconda mossa: Monti
Due perizie (una chimica e l’altra epidemiologica) stabilivano che a Taranto venivano riversati tonnellate di inquinanti: 210 chili a testa per anno.
E in 13 anni risultano 386 decessi attribuibili all’inquinamento industriale.
Una stima “conservativa”, al netto di eventuali effetti confondenti (fumo, deprivazione sociale, ecc.), perché altrimenti l’eccesso di mortalità risultava di gran lunga superiore, come del resto confermato dallo Studio epidemiologico Sentieri condotto su Taranto dall’Istituto Superiore della Sanità.
Tutti dati ‘scomodi’.
L’allora ministro Clini ha denunciato il presidente dei Verdi Angelo Bonelli dopo la diffusione di quei dati che tuttavia non risultavano “manipolati” ma sono stati ulteriormente confermati e aggravati da un successivo aggiornamento dello Studio Sentieri pubblicato sulla rivista Epidemiologia e Prevenzione.
Ormai la guerra dei numeri sui dati epidemiologici era persa per il governo. Un po’ di persone venivano arrestate e occorreva un’operazione di salvataggio dopo che la magistratura aveva sequestrato tubi e coils prodotti dall’Ilva. Da quel momento il poi tutto il materiale prodotto con impianti posti privi di facoltà d’uso sarebbe stato sequestrato. I magistrati – con notevole acume – invece di spegnere coattivamente gli impianti inquinanti sequestravano il “frutto del reato”: l’acciaio prodotto (ossia quanto sfornato da impianti a cui era stata inibita con un’ordinanza la facoltà di produrre).
A questo punto arriva un fulmineo decreto di Monti, la benedizione di Napolitano e un altrettanto fulmineo “obbedisco” trasversale del Parlamento che – con poche eccezioni – converte il decreto nella legge 231/2012. Siamo nel dicembre 2012. L’azienda viene reimmessa nella facoltà d’uso degli impianti a condizione che applichi l’Aia.
L’Ilva è salva per la seconda volta.
Terza mossa: Letta
La magistratura tarantina va tuttavia avanti.
Non potendo più inibire la facoltà d’uso, non potendo più sequestrare l’acciaio, dispone il sequestro dei profitti.
Con una nuova misura cautelare dispone il ‘sequestro per equivalente’ di 8,1 miliardi di euro, frutto di ‘profitto illecito’ (secondo la tesi della magistratura). Il provvedimento (seguito a un sequestro di 1,2 miliardi di euro della magistratura milanese su capitali della famiglia Riva) tocca tutti i capitali del Gruppo Riva ad eccezione dell’Ilva di Taranto. La magistratura aggira cosi’ i vincoli della legge 231/2012.
E’ scacco matto ai Riva.
Con quella mossa si giunge a quello che viene definito il “punto di non ritorno”. A condannare definitivamente l’Ilva e’ il mancato rispetto dell’Aia, quella “a tempi lunghi” di Clini, la ciambella di salvataggio di blande prescrizioni che l’azienda tuttavia non ha applicato proprio nei punti più onerosi e importanti.
Ed ecco la terza risurrezione dell’Ilva con il decreto pubblicato oggi in Gazzetta Ufficiale.
Il nuovo governo non ha neppure più il pudore e la cautela di Monti, che almeno salvava l’Ilva a condizione che venisse rispettata le prescrizioni dell’Autorizzazione Integrata Ambientale cucita su misura per l’Ilva. Il governo Letta prevede invece che cinque esperti possano riconfigurare il percorso attuativo dell’Aia (articolo 1 comma 5) in quanto è previsto un nuovo “piano” che deve “prevedere le azioni ed i tempi necessari” per la realizzazione dell’Aia.
Ma come è possibile? Questo piano era già contenuto nell’Aia! L’Aia era gia’ completa di cronoprogramma e di ogni specifica tecnica: doveva essere solo rispettata. Gli esperti sono già presenti nell’Ispra e nell’Arpa, non ve ne è bisogno di altri. E’ il massimo della confusione e della sovrapposizione di competenze. Siamo in presenza di un papocchio che contiene la sorpresa di un grimaldello nascosto: l’Aia da rigida diventa adattabile in funzione dei “tempi necessari” alla realizzazione del “piano industriale”.
La presenza di questi tre esperti nel decreto è pertanto sospetta dato che già l’Aia era stata scritta da una commissione di esperti e veniva considerata “blindata” dalla legge 231/2012: dura lex sed lex.
Ora invece l’Aia può essere riscritta in corso di realizzazione grazie agli “esperti”.
E’ come dire: costa troppo un ponte con quattro piloni? Lo facciamo in economia con tre. E gli esperti certificano.
Il nuovo decreto che salva l’Ilva dal collasso scongela i capitali sequestrati e nomina Bondi commissario dell’Ilva. Le guance di Monti sarebbero arrossite.
E cosi’ l’amministratore delegato dell’Ilva, dimessosi da pochi giorni, ritorna in azienda con il cappello di servitore dello Stato dopo esserne uscito con il cappello di servitore dell’azienda.
Ilva ha debiti con le banche che vanno onorati prima della sua chiusura e quindi deve continuare a produrre.
Le banche non transigono, un fallimento dell’Ilva trascinerebbe nella polvere un intero sistema creditizio ed è per questo che sono scesi in campo i poteri forti.
Senza alcun imbarazzo il governo si mostra all’Europa in tutta la sua italica astuzia e – dopo aver perso la battaglia sui dati epidemiologici – cerca di dare una apparenza di legalità ad una produzione a tutti i costi, tacendo se ciò possa continuare a danneggiare la salute e l’ambiente.
Ma la strada di questi salvataggi è tutta in salita.
In primo luogo l’Europa guarda la nostra commedia – cosi’ ricca di colpi di scena – e valuterà se qualcuno sta violando qualche direttiva comunitaria, ad esempio la 2004/35/CE che sancisce il principio “chi inquina paga”. Tutta questa storia infatti farà arrivare prima o poi al pettine questo nodo che, decreto dopo decreto, viene solo schivato dalla maggioranza trasversale che si è dimostrata così sollecita verso i Riva.
In secondo luogo l’opinione pubblica nazionale e internazionale ci guarda. A Taranto sono ormai giunti da tutto il mondo giornalisti e registi. Il governo può sentirsi al di sopra del comune senso del pudore. Ma l’opinione pubblica no.
In terzo luogo i Riva potrebbero dire chiaro e tondo che non hanno soldi da spendere per ammodernare l’area a caldo e che non è conveniente farlo in condizioni avverse di mercato.
Infine ecco la questione decisiva: i prezzi delle materie prime salgono e l’offerta dell’acciaio è superiore rispetto alla domanda di mercato. Inoltre il mercato nazionale è fermo con la crisi dell’edilizia che è il primo cliente dell’acciaio grezzo. E le prospettive che rimangono aperte sono individuabili nell’Asia in crescita in cui la fa ormai da padrone l’acciaio cinese. Le abile manine che modificano le leggi quando la magistratura fa scacco matto potranno ancora cambiare – senza alcun arrossir di guance – le regole del gioco durante la partita, ma non possono cambiare l’esito di questa storia che sarà comunque scritto dall’economia globale.
Quanto potrà durare l’agonia di questi signori della “old economy”?
E quanti morti e feriti costerà alla fine questa disperata battaglia di retroguardia dei signori della politica?
Foto: Luciano Manna/ Peacelink