L’immigrato clandestino, scrivevo nel post precedente, è il precario assoluto. In che senso? Egli è colui che subisce nella propria quotidianità gli effetti devastanti di una precarietà assoluta, in tutti i campi della propria esistenza: lavorativo, giuridico, abitativo, relazionale, affettivo…
Il clandestino è allora il punto terminale di un processo – quello della precarizzazione – che riguarda tutti: cittadini e no, garantiti e no. E’ la base di una piramide sociale basata sul ricatto: sopra di lui c’è infatti l’immigrato regolare, clandestino potenziale, che a sua volta, come scrivevo ancora nel post precedente, deve soggiacere al ricatto lavorativo per non perdere il permesso di soggiorno, e accetterà dunque condizioni che potrebbero essere inaccettabili per un “cittadino” che non ha lo spettro di essere cacciato nella clandestinità e deportato. L’effetto di questa piramide è l’abbassamento complessivo dei diritti di tutti i lavoratori.
Dare diritti ai lavoratori, metterli in grado di difenderli e di difendersi, è l’unico modo perché tutti i lavoratori possano averli. Quando un diritto non è di tutti, prima o poi smette di essere tale per tutti.
Si tratta, allora, di combattere non i clandestini, ma la clandestinità. Non combattere i clandestini, perché l’Italia lo fa già: nella sua legislazione sull’immigrazione, combina gli strumenti peggiori escogitati dalla fortezza Europa: ultimo dispositivo, il pacchetto sicurezza – che smonta alle fondamenta chi dice che ci vogliono leggi contro gli immigrati: ci sono già, peggio non è possibile nemmeno concepirle.
In Italia non entri senza contratto di lavoro: ovvero, sei costretto a entrare in Italia da clandestino, poiché per le leggi di mercato è assurdo che qualcuno possa essere assunto a distanza e arrivi dopo un anno. Ciò significa che la nostra legislazione produce clandestinità. Produce illegalità. Produce servi, che servono alla nostra economia che ha bisogno di lavoratori a bassissimo costo o a costo zero.
Si tratta, invece, di combattere la clandestinità. I migranti – come hanno sempre fatto tutti i migranti, compresi quelli italiani – sono investitori: investono tempo, esistenza, spesso un sacco di soldi. Perciò vogliono recuperarlo questo investimento. Loro vanno dove c’è lavoro. E’ ovvio, è semplice buon senso: dimostrato peraltro dai dati: dove c’è la massima presenza di immigrati regolari, c’è anche la massima presenza di immigrati irregolari (Brescia, per esempio). E questo per il semplice motivo che lì c’è lavoro.
E questo è confermato da un altro dato: negli ultimi tre anni i flussi di migrazione verso l’Italia si sono considerevolmente ridotti. La crisi produce meno posti di lavoro, e i migranti vanno altrove. Un migrante tendenzialmente non va dove non c’è lavoro, si muove su reti (affermare il contrario significa ignorare la realtà, basta prendersi un testo elementare di sociologia delle migrazioni).
Si tratta allora di contrastare il lavoro nero, e di consentire l’emersione dei lavoratori. E di cambiare radicalmente la struttura della Bossi-Fini. Su queste due questioni tornerò nei prossimi post: da una parte, occorre capire bene quale sia la struttura economica che richiede lavoratori in stato di servitù; dall’altra, occorre capire che è possibile e auspicabile sganciare il permesso di soggiorno dal contratto di lavoro.