La staffetta giovani- anziani è poco popolare tra gli economisti: per molti aspetti è l’opposto dell’ aumento dell’ età pensionabile appena approvata dal governo precedente. Ma molti  si chiedono: ha senso aumentare l’età pensionabile con una disoccupazione giovanile  al 40 percento?

di Roberto Perotti* (lavoce.info)

Un dibattito aperto

Un osservatore esterno ha diritto di essere confuso: la staffetta giovani – anziani non è per molti aspetti l’opposto dell’aumento dell’età pensionabile appena approvata dal governo precedente? Molti economisti sono favorevoli all’aumento dell’età pensionabile e contrari alla staffetta. Ma molti non-economisti si chiedono: che senso ha aumentare l’età pensionabile quando la disoccupazione giovanile è quasi al 40 per cento? Non sono sicuro che gli economisti abbiano una risposta convincente a questa domanda.
Le critiche mosse dagli economisti alla staffetta sono di  carattere empirico e di carattere teorico. Cominciamo dalle prime. Tito Boeri e Vincenzo Galasso su lavoce.info mostrano che, in un campione di paesi avanzati,  non c’è nessuna relazione  tra la disoccupazione  giovanile  e il tasso di attività dei lavoratori tra 54 e 65 anni. Andrea Moro su NoisefromAmerika mostra che esiste addirittura una relazione positiva tra i tassi di occupazione dei giovani e degli anziani. Anche le  istituzioni internazionali da tempo sostengono che la relazione fra età pensionabile e occupazione giovanile è probabilmente positiva.

Perché l’evidenza empirica non è convincente

Tuttavia questa evidenza non ci dice niente sugli effetti di breve periodo (e forse neanche di lungo periodo) di una diminuzione  dell’età pensionabile imposta da un governo in un dato paese. Tecnicamente, ciò è dovuto al fatto che questa evidenza  viene da regressioni cross-section (cioè in cui la singola osservazione è un paese con il suo tasso di disoccupazione e la sua età pensionabile), mentre la domanda cui vorremmo rispondere è di natura time- series (cioè, cosa avviene nel tempo in un dato paese se riduciamo per legge l’età pensionabile). Intuitivamente, il motivo per cui l’evidenza cross-section non è molto probante è che molto probabilmente sia l’età pensionabile sia la disoccupazione giovanile di un paese sono influenzate  da altri fattori specifici di quel paese, di tipo culturale e sociale. Per esempio (ma solo come esempio astratto) qualcuno potrebbe sostenere che nei paesi con etica protestante gli anziani non vogliono  andare in pensione presto e i giovani hanno voglia di lavorare presto. Se fosse vero, la variabile “etica protestante” causerebbe sia l’età pensionabile alta sia la disoccupazione giovanile bassa. Ma questo non significa che se aumentiamo l’età pensionabile per legge diminuiamo la disoccupazione giovanile. Così come un aumento dell’età pensionabile non causerebbe un aumento della popolazione protestante.

Ma la quantità di lavoro non è fissa

Veniamo agli argomenti teorici a favore di un aumento dell’età pensionabile (e quindi, implicitamente, contro la staffetta). Il primo, che viene utilizzato da molti economisti ma soprattutto dalle istituzioni internazionali come Ocse  e Fmi, è che un aumento dell’età pensionabile aumenta l’offerta di lavoro e quindi il Pil e la crescita. Questo è un argomento risibile quando il tasso di disoccupazione è al 12 per cento e quello giovanile al 40 percento.
Un secondo argomento teorico è la critica della cosiddetta “lump of labor fallacy” ( vale a dire l’errore della quantità fissa di lavoro). I sindacalisti hanno spesso in mente, in modo implicito o esplicito, che ci sia una quantità fissa di lavoro: se  Tizio e Caio lavorano 10 ore in meno ciascuno, Sempronio può lavorare 20 ore in più, magari part time. Questo argomento deriva da una visione di breve periodo di una economia che in gran parte non esiste più. Si applica per esempio alla vendemmia: la quantità di uva da raccogliere è fissa, e chiunque può raccoglierla perché l’operazione non richiede particolari competenze. Ma in una economia moderna, nella maggior parte degli impieghi ogni lavoratore ha delle competenze specifiche e un capitale umano specifico; rimpiazzarlo con un altro individuo ha senso solo se il secondo è un migliore match per quell’impiego. Ma non c’è bisogno di imporlo per legge: con tutti i giovani disoccupati che aspettano una chiamata, un imprenditore lo avrebbe già fatto se ne valesse la pena.
Si potrebbe obiettare che  l’imprenditore vorrebbe farlo, ma che i costi fissi di licenziare un anziano e di assumere un giovane eccedono il vantaggio dal miglioramento del match. La staffetta funziona dunque solo se lo stato fornisce incentivi che eccedono questi costi fissi. Ma vi sono altri costi fissi. Al contrario della vendemmia, per  un imprenditore non è la stessa cosa fare lavorare Tizio e Caio 40 ore alla settimana, o 30 ore alla settimana e assumere Sempronio part time a 20 ore:  non è possibile trasferire istantaneamente con un cavo Usb a Sempronio tutte le conoscenze accumulate da Tizio e Caio in quella azienda. Per assorbire la disoccupazione giovanile in fretta, lo stato deve dunque fornire ulteriori incentivi per compensare questi altri costi. Inoltre, la spesa pubblica aumenterebbe ulteriormente se, come sembra, il governo intende continuare  a pagare contributi figurativi a Tizio e Caio per 40 ore invece di 30 – in altre parole, se la loro pensione non diminuisse in modo corrispondente.

Le due vie d’uscita

In ultima analisi, il problema della staffetta è un gatto che si morde la coda. Ridurre l’età pensionabile favorirebbe l’occupazione dei giovani nel breve periodo, ma aumenterebbe le tasse e i contributi che ogni occupato (inclusi i giovani) dovrebbero pagare, sia per pagare gli incentivi necessari per far funzionare la staffetta, sia per pagare  le pensioni dei lavoratori che di fatto vengono pre-pensionati. Ciò aumenterebbe il costo del lavoro, e dopo poco la disoccupazione aumenterebbe nuovamente.

Ci sono solo due vie d’uscita per salvare capra e cavoli. La prima è sperare che l’economia riprenda e risolva gran parte dei problemi. La seconda è non aumentare l’età pensionabile, ma ridurre l’importo medio delle pensioni più alte, come proposto da Boeri e Nannicini. La prima soluzione è aleatoria, e non nelle nostre mani. La seconda è corretta, ma politicamente inattuabile.

*Roberto Perotti ha conseguito il PhD in Economics al MIT nel 1991. Dopo 10 anni alla Columbia University di New York e due anni all’European University Institute di Firenze, attualmente e’ all’IGIER-Universita’ Bocconi. E’ co-direttore del Journal of the European Economic Association, e Research Fellow presso il Center for Economic Policy Research. E’ stato consulente della Banca Mondiale, della Inter-American Development Bank, della Banca Centrale Europea, e della Banca d’Italia. E’ stato redattore de lavoce.info fino al 2012

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