Per spiegare cosa sia il fenomeno Springsteen, cosa abbia rappresentato per una certa America progressista, bisogna tornare indietro di qualche decennio. La corda da massacrare gliela offre l’allora presidente, Ronald Reagan e un Paese apparentemente in piena crescita, ma che già covava la depressione che sarebbe arrivata di lì a breve: “Chissà se Reagan ha mai ascoltato Johnny 99”. Che poi è la storia di un operaio che non ce la fa a pagare il mutuo, prende un fucile in mano e spara. Quando si trova davanti al giudice gli dice: “Non è solo la perdita del lavoro e della casa. Ma le idee che questa tragedia mi ha fatto venire in mente. Avevo debiti che nessun uomo onesto può pagare”. Una canzone che forse qualcuno oggi dovrebbe riascoltare. Reagan probabilmente non lo fece, probabile che la conosca meglio Obama, più improbabile sentirla canticchiare a Berlusconi o Enrico Letta.
Il boss però, se qualcuno perdesse delle certezze, c’è. Lo ha dimostrato l’altra sera a Milano, dove è stato il solito Bruce Springsteen, probabilmente uno dei più grandi. Cinquantamila persone che in un continuo crescere si sono fatte trascinare. Perché il Boss trascina. Lui non canta, urla. Non suona la chitarra, la prende a schiaffi come solo lui può essere capace di fare. Non parla alla gente: entra nella pelle come un brivido improvviso e ti molla dopo tre ore. È Springsteen, appunto. L’uomo che sa essere il meno americano tra i cantautori e poi scrive canzoni che la sua terra invece la trapassano, ci volano sopra a quel Paese pieno di contraddizioni e spazi infiniti. A San Siro ha parlato anche in italiano, perché tra i suoi amori c’è anche il nostro Paese.
E non è un caso che lo abbia voluto attraversare in treno, “dondolato dal vagone”, come avrebbe raccontato Guccini, seppure a duecentocinquanta all’ora di velocità. È sceso a Milano Centrale, direzione San Siro, poi tutto quello che ne è venuto fuori. Una scaletta stravolta a favore dei grandi successi di Born in the Usa. Tre ore di musica con la band, balli, entusiasmi. A 63 anni suonati. Mica è poco. E non è poco l’atto d’amore italiano: “Questo stadio è unico, mi lascia emozioni che nessun luogo ha mai fatto”. Come nel 1985, la prima volta che ci mise piede. E chissà per quanto tempo ancora. Almeno, noi ce lo auguriamo.