In un intervento su la Repubblica, il costituzionalista ha bocciato su tutta la linea i propositi avanzati dall'esecutivo di larghe intese sui cambiamenti della carta costituzionale: "Sono altre le priorità"
”Nel tempo ingannevole della ‘pacificazione’, il conflitto giunge nel cuore del sistema e mette in discussione la stessa Costituzione”. Non usa mezze parole Stefano Rodotà per bocciare in partenza i propositi di cambiare la carta dello Stato avanzati dall’esecutivo di larghe intese. Con un intervento su la Repubblica, il costituzionalista attacca “una politica debole, da anni incapace di riflettere sulla propria crisi” che ora “compie una pericolosa opera di rimozione e imputa tutte le attuali difficoltà al testo costituzionale” puntando verso il presidenzialismo che è “in contraddizione con il modello della democrazia partecipativa” e oggi “finisce con l’apparire una pulsione suicida l’allontanarsi da esso”.
Non solo. Per Rodotà “una revisione condotta secondo la logica costituzionale, e non contro di essa, esige proprio la valorizzazione di tutti gli strumenti della democrazia partecipativa già presenti nella Costituzione” e non di andare verso l’investitura di ‘un uomo solo al comando’. Peraltro, osserva il professore, si fa uno “strappo alla Carta” anche nel metodo, visto che “si è abbandonata la procedura prevista dall’articolo 138 per la revisione costituzionale” e “compaiono nuovi soggetti, una supercommissione parlamentare e una incredibile e pletorica commissione di esperti“. Bocciatura su tutta la linea, quindi, a cui non manca una connotazione anche politica. Infatti, a sentire il costituzionalista, “oggi sembra tornare il tempo degli apprendisti stregoni e di una ingegneria costituzionale che, di nuovo, appare ignara del contesto in cui la riforma dovrebbe funzionare. Che cosa diranno gli odierni sostenitori di variegate forme di presidenzialismo quando, in un domani non troppo lontano, il ‘leaderismo carismatico’ renderà palesi le sue conseguenze accentratrici, oligarchiche, autoritarie? Diranno che si trattava di effetti inattesi?”.
Dopo le domande retoriche, Rodotà ricorda che già la riforma elettorale del 1993 doveva assicurare stabilità e cancellare “le pessime abitudini della Prima Repubblica“. E invece ha accentuato di fatto “la personalizzazione della politica e le inevitabili derive populiste”. Invece ci sarebbero altre “proposte largamente condivise”, dal taglio del numero dei parlamentari alla riforma dei regolamenti “che potrebbero essere rapidamente approvate con benefici per l’efficienza del sistema senza curvature autoritarie”.