Quando la confusione sui fatti di stamani in Afghanistan si sarà diradata, forse sapremo meglio come si è svolto l’attacco che ha portato alla morte di Giuseppe La Rosa, capitano del 3° reggimento bersaglieri di Teulada, appartenente alla Brigata Sassari (su vari siti scrivono Brigata Aosta, ma non è esatto), e al ferimento piuttosto grave di altri tre militari italiani.
La versione ufficiale, almeno quella riportata dalle agenzie, è che un convoglio della Transition Support Unit South operante nella zona di Farah in appoggio ad una unità dell’Esercito afghano sarebbe stato oggetto di un’imboscata e un “elemento ostile” avrebbe lanciato una bomba a mano dentro il veicolo Lince dove si trovava il capitano.
Non occorre essere dei grandi esperti militari per capire che questa ricostruzione proprio non sta in piedi. Se davvero ci fosse stato un’imboscata, dubito che un assalitore sarebbe riuscito ad aprire lo sportello del Lince, un mezzo corazzato diventato famoso perché in grado di resistere anche all’esplosione dei micidiali IED (improvised explosive device, ordigni esplosivi improvvisati). E certo una bomba a mano non sarebbe potuta penetrare all’interno sfondando la corazza. I Talebani dicono che invece sarebbe stato un eroico ragazzino undicenne. Ma quasi sempre nel passato gli insurgents, come li chiama l’Isaf, hanno rivendicato attacchi non loro.
Dunque non resta che una sola altra spiegazione: i militari italiani hanno aperto lo sportello perché si sentivano sicuri. Forse quella bomba l’ha lanciata proprio uno degli uomini dell’esercito afghano che operava con l’appoggio dagli italiani. Sarebbe dunque uno dei micidiali e temutissimi attacchi green on blue (verde su blu, letteralmente) le uccisioni di militari dell’Isaf per mano di soldati afghani.
ll verde è il colore dell’uniforme dell’esercito di Kabul, il blu è il colore che da sempre gli eserciti occidentali usano per distinguersi (una volta, dall’altra parte, c’erano i rossi, poi diventati arancioni per ragioni di political correctness). Questo tipo di aggressioni sono una costante della guerra afghana almeno da cinque anni, stando ai pochi dati che si conoscono tutti di fonte non ufficiale. Negli ultimi due anni la loro frequenza è aumentata in modo allarmante, al punto da diventare uno dei problemi più seri per la tenuta del morale delle truppe occidentali. A settembre dello scorso anno, l’impennata di vittime provocata dai green on blue attack aveva persino portato ad una prolungata sospensione di tutte le operazioni congiunte con gli afghani prima da parte statunitense e poi anche degli inglesi. Solo dopo parecchie settimane la collaborazione sul terreno è ricominciata ma solo per operazioni a livello di battaglione o superiore. E adesso le truppe Isaf in operazioni sono accompagnate dai guardian angels, gli angeli custodi, altri soldati che hanno il compito di proteggere i “nostri” dai commilitoni afghani con i quali operano. Insomma, i soldati si muovono con altri soldati che gli fanno da scorta.
Sapere quanti siano questi attacchi è, però, impossibile: il dato è classificato, come ha confermato il tenente colonnello Jimmie Cummings, dell’Isaf, a The Long War Journal, rivista della Foundation for the Defense of Democracies. Un’altra prova che le informazioni segrete servono contro le opinioni pubbliche, non contro il nemico.
Qui, da noi, invece il dato non è neppure classificato. I green on blue attack non esistono. Anche se so per certo che almeno un altro attacco recente contro gli italiani è stato condotto dai “colleghi” afghani, ma mai ufficialmente ammesso dallo Stato maggiore per il quale i nostri soldati portano quaderni nelle scuole, merendine negli asili, curano donne e bambini, costruiscono ponti (ma hanno anche edificato, anni fa, una chiesa cattolica, per la serie come volersi far ben volere in un Paese rigidamente e persino fanaticamente musulmano). Che ci facciano gli italiani con i fucili non si sa bene.
Eppure, secondo i dati pubblicati dal The Long War Journal, in anni recenti questo tipo di attacchi con conseguenze mortali sono stati 16 nel 2011, 44 nel 2012 e 6 nel 2013 (7, se contiamo anche quello di oggi) che hanno provocato quasi il 15 per cento delle vittime occidentali in Afghanistan. Non si sa quanti siano stati quelli senza morti, certamente molti di più.
Nonostante ciò solo quest’anno una circolare dello Stato maggiore dell’Esercito ha disposto che nell’addestramento dei militari inviati in quel teatro operativo ci sia una formazione specifica per contrastare questo genere di situazioni. Secondo questo documento le motivazioni sono “legate, nella maggioranza dei casi, a incomprensioni tra personale della Coalizione e ANSF, differenze ideologiche, combat stress e uso di sostanze stupefacenti e che solo in poche circostanze sono state individuate affiliazioni con gli insurgents”.
Informazione confermata anche da un lungo studio del 2011 della George Washington University, A Crisis of Trust and Cultural Incompatibility, effettuato attraverso focus group occidentali/afghani, da dove emerge con chiarezza come gli attacchi green on blue siano motivati per il mancato rispetto delle tradizioni, della religione, per i comportamenti volgari e il linguaggio scurrile dei soldati occidentali e non abbiano pertanto motivazioni ideologiche. Insomma, sono gli amici che ci sparano addosso, oltre ai nemici.
Quello che uccide i soldati dell’Isaf dunque sempre più spesso sono la nostra arroganza occidentale e la percezione da parte degli afghani che comunque noi siamo truppe di occupazione, al di là di qualsiasi retorica. Quando lo capiremo, non sarà mai abbastanza presto.