Dice il Presidente della Repubblica che il Fatto ha accreditato “il ridicolo falso di un termine da lui posto al governo”, in una nota che irritualmente riporta non solo il nome del giornale, ma anche di chi scrive. Il “ridicolo falso” su cui tutti i principali quotidiani titolavano (senza essere smentiti dal Colle) il giorno 3 giugno era oggetto di una domanda a Barbara Spinelli (nominata a sua volta). L’interrogativo che questa vicenda solleva è proprio questo: si può ancora fare domande in questo Paese? Si può discutere? O per non dar fastidio a nessuno basta, costume diffuso nei telegiornali, sistemare un microfono sotto il mento dei politici, senza contraddirli e nemmeno incalzarli? È questo che i cittadini si aspettano dall’informazione? In Italia assistiamo al paradosso di una commissione politica che vigila sulla Rai, quando dovrebbe essere il contrario. Cioè l’informazione (specie il servizio pubblico) dovrebbe vigilare sulla gestione trasparente del potere. A causa di questo paradosso ci sembra tutto normale. Perfino il tesoriere del Pdl Maurizio Bianconi che definisce Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella “i tumori della democrazia”. Ovviamente se di malattie della democrazia dobbiamo parlare, parliamo di tutto quello che due maestri del giornalismo d’inchiesta hanno scoperto e documentato in questi anni. Non per niente La casta ha venduto un milione e mezzo di copie.

Nei festival, negli incontri pubblici e istituzionali capita spesso che si provi a interrogare il politico di turno e che questi giri le spalle. “Non rilascio dichiarazioni”, “Non parlo”. E pure con un certo fastidio verso chi alza la mano in conferenza stampa: “Cosa vuole questo?”. Ma chi rappresenta i cittadini ha il dovere di rendere conto del proprio operato. Si chiede con enfasi il voto nell’imminenza delle scadenze elettorali, poi il rapporto con il popolo si volatilizza per anni. Il risultato è che la percentuale di astensionismo aumenta vertiginosamente, ma pare che nessuno se ne occupi né preoccupi. Eppure la faccenda è piuttosto allarmante perché il principio di rappresentatività si sta progressivamente svuotando.

E i politici votati da metà degli aventi diritto dovrebbero chiedersi chi rappresentano, oltre se stessi. In un momento in cui un Parlamento eletto con una legge fortemente sospettata di incostituzionalità (dalla consulta) si appresta a metter mano alla Costituzione, è ovvio che più il dibattito è largo, più la democrazia è garantita. Si discute addirittura della trasformazione della forma di governo, una riforma che richiede un confronto vasto e partecipato, non certo un accordo tra partiti siglato nelle segrete stanze. Invece ogni parola che si leva fuori dal coro è ricevuta come uno sgarbo, una maiestas lesa. Come se rispetto e adulazione fossero sinonimi.

Per non dire del tema della moralità: leader politici e amministratori pubblici in questi anni sono stati travolti da scandali di ogni tipo, con frequenza quasi quotidiana. La risposta non può essere imbavagliare la stampa con leggi che vengono periodicamente riproposte, perché già abbiamo un sistema d’informazione anomalo (servizio pubblico condizionato dai partiti, televisione commerciale quasi interamente nelle mani di un leader politico, giornali con editori che hanno mille ulteriori interessi). E soprattutto perché le censure trovano sempre il loro antidoto. 

il Fatto Quotidiano, 9 Giugno 2013

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