L'attore non era nella lista degli invitati di Francois Pinault. La manifestazione dalle palle di vetro blu di Jeff Koons, al cortometraggio in infrarossi del trentenne irlandese Richard Mosse che ha utilizzato la stessa tecnica militare per rendere visibile il conflitto "invisibile" del Congo
Biennale di Venezia. “Mi dispiace, il suo ospite non è in lista”. Così si è sentita rispondere Naomi Campbell dall’ingessato servizio anti/imbucati a Palazzo Grasso per la soireè blindatissima di Francois Pinault, una sorta di roi soleil dell’arte contemporanea. Dove campeggiava la scritta “Se la forma scompare la sua radice è eterna”, molto evocativa visto i tempi che corrono. “Per questa volta faremo un’eccezione”. E lo lasciano entrare. L’imbucato è Leonardo Di Caprio, fresco dell’insuccesso “festivalierio” de Il Grande Gatsby in chiave circense.
Ma non lo lasciano sedere al tavolo d’onore, quello con princesse Carolina di Monaco, per intendersi. Dalla Frieze Art Fair di New York alla Biennale di Venezia (settimana prossima inizia pure Art Basel) la fiera di vanità artistiche, di artistoidi e di vippame infiocchettato in trasferta continua a pompare ossigeno e soldi a un settore strangolato dalla crisi planetaria. Dalle palle di vetro blu di Jeff Koons, il furbetto dell’arte contemporanea, esposte a Chelsea, il ventre molle della creatività newyorkese, al cortometraggio in infrarossi del trentenne irlandese Richard Mosse che ha utilizzato la stessa tecnica militare per rendere visibile il conflitto “invisibile” del Congo. Mosse è al suo debutto alla Biennale dove cultura alta si mescola con cultura in cerca d’autore. Si cambia giro, si sbarca alla Tesa 113, un magazzino del 13esimo secolo all’Arsenale, una volta utilizzato per tendere le cime delle imbarcazioni.
La direzione artistica è di Gaia Trussardi che ha fatto venire da Londra i più scatenati dj. Il party più noioso? Quello di Swatch Vibe, partner della biennale, alla Compagnia della Vela, per i suoi 30 anni di attività. Agli ospiti distribuivano maschere a forma di orologio ispirate alle icone Swatch mentre il dj londinese di turno (guai a non averne uno alla consolle) sparava musica spaccatimpano. L’artista più applaudita Carol Rama, la Grande Anziana dell’arte, 95 anni, dipinge da quando ne ha sei. Il party non party? Quello alla prevue delle prevue ( è sempre una corsa a chi comincia prima degli altri) alla Fondazione Prada. L’installazione porta il nome sibillino When attitudes become Form e Miuccia Prada, artist talent scount, scala il cinquantottesimo posto nella classifica annuale di Forbes delle 100 donne più potenti del mondo. Il party intelletual/chic dalla buona causa? Quello di Vhernier che ha sponsorizzato il restauro degli ori liturgici, salvati dalle razzie naziste, per la ricorrenza dei 500 anni del Ghetto Ebraico di Venezia, il più antico d’Europa. In mostra l’anello Neder, che significa “Promessa”, realizzato da Vhernier, insieme agli ornamenti dei bastoni neI quali si avvolgeva la Torah.
Il party che non c’è stato? Le sciure in laguna se lo aspettavano per l’apertura di Aman Canal Grande, il primo boutique resort della in Italia della catena alberghiera deluxe. Solo 24 stanze, fra affreschi del Tiepolo, stucchi e arredi di design minimal. La cornice del cinquecentesco Palazzo Papadopoli, che da generazioni appartiene alla aristofamiglia veneziana degli Arrivabene, non ha bisogno certo di un frou frou mondano da esibizionismo. Chissà che botta di Imu ha già addosso. Prossimo giro Art Basel: se la Biennale è ancora un terreno di sperimentazione ( e si spera che lo rimanga ancora per molto) a Basilea c’è da aspettarsi un’esibizione ancora più trionfante delle opere più costose e della ricchezza più sfacciata che serve per acquistarle. La sagra degli oligarchi in cerca di pedigree socio-culturale, con portafogli che esplodono. Aeroporti locali in tilt per il traffico di jet privati transoceanici, galleristi in orgasmo multiplo… “Crisi, what..? Un’altro bicchiere di Krug, please…”