Se non fosse una questione seria, con duemila e più suicidi, migliaia di cassintegrati, massiccia emigrazione da crisi e una disoccupazione record al 26%, la crisi greca sembrerebbe uno scherzo di cattivo gusto: per via delle dichiarazioni, delle ammissioni di colpa e degli errori di valutazione che negli ultimi mesi stanno emergendo con forza. Dopo l’intervista choc dello scorso gennaio in cui un alto dirigente del Fondo Monetario Internazionale ammetteva di aver sbagliato i conti sulla voragine finanziaria ellenica, e dopo che pochissimi giorni fa lo stesso Fmi ha fatto pubblicamente mea culpa, uno studio di tre economisti rivela che quell’errore di valutazione è costato la bellezza di nove miliardi di euro alla Grecia.
Pubblicato pochi giorni fa nell’Economic Review sotto il titolo di “La crescita economica in Grecia: il costo di un programma di adeguamento non riuscito”, lo studio è firmato da Telemaco Efthymiades e Sotiris Papaioannou, ricercatori presso il Centro per la Pianificazione e Ricerche Economiche (Kepe) e Panagiotis Tsintzos, ricercatore associato presso l’Università Democrito di Tracia (LBB). I tre economisti si basano sull’identità del PIL e decompongono il PIL reale di un paese in quattro componenti: le ore lavorate per dipendente, il tasso di occupazione, il tasso di partecipazione alla forza lavoro e la dimensione della popolazione in età lavorativa.
Tenendo conto di tutti questi parametri, hanno confrontato gli obiettivi e le disposizioni del primo memorandum imposto dalla troika con i risultati effettivi ottenuti. E sono giunti alla conclusione che la recessione, profonda e prolungata, ha influenzato in modo significativo e irreversibile le prospettive di crescita del paese. Una sorta di certificazione di qualità di un programma di aggiustamento fiscale che ha fallito e la riprova, più che in slogan antisistema come quelli andati in scena lo scorso week end ad Atene in occasione dell’Alter Summit, si ritrovano nei numeri: il debito pubblico greco all’inizio della crisi era di trecento miliardi di euro, lo stesso di oggi. Come se tre interventi diretti sulla pelle degli undici milioni di ellenici, con tre tagli di salari, indennità, pensioni e welfare non fossero serviti a nulla se non a curare un mega debito con un altro di proporzioni indefinibili. La Grecia non sarà in grado di restituire i duecentocinquanta miliardi di prestiti ottenuti da Fmi, Ue e Bce.
In tre anni, è il sunto del report, il costo del fallimento del Fmi ha toccato i nove miliardi di euro. Quasi ciò che la troika ha incassato dal prelievo forzoso nelle banche cipriote. Numeri precisi che non si prestano a interpretazioni di sorta. Si aggiunga che un altro rilievo tecnico sui danni dell’austerità tout court era stato avanzato poche settimane fa da Daniel Leigh e Olivier Blancherd, uno dei direttori delle analisi economiche del fondo che avevano pubblicato tutte le loro perplessità nel documento intitolato “Moltiplicatori fiscali ed errori nelle previsioni di crescita”. Nel documento avevano affrontato analiticamente, e numeri alla mano, i casi di Spagna, Portogallo e Grecia. Evidenziando come la politica di austerity imposta dai creditori internazionali ai cosiddetti paesi Piggs, non controbilanciata da interventi per favorire la ripresa, semplicemente foraggiava disoccupazione e contrazione dell’economia. Imboccando un tunnel senza uscita.
Quindi all’inefficienza della cura somministrata, si somma un danno strutturale nel medio-lungo periodo e il fatto che a dirlo pubblicamente sia stato anche uno studio del Fondo monetario internazionale, significa che nessuno ha operato un controllo sul merito delle cosiddette politiche di salvataggio dell’eurozona. Di contro i Paesi che sono stati obiettivo di tali interventi hanno poche chanches di tornare indietro.
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