La vittoria di Ignazio Marino che era probabile dall’inizio ma non scontata, è una buona notizia per Roma, in preda da tempo a una spirale di degrado palpabile persino per i visitatori più occasionali e distratti. E stando alle parole del neo-eletto che ha indicato la capitale come “guida morale per il nostro paese”, anche per i non romani.
La tentazione per il Pd, peraltro già ampiamente assecondata fin dal primo turno, con il presidente del Consiglio che si era avventurato a dichiarare che il voto delle amministrative rappresentava addirittura una conferma e un successo delle larghe intese è ovviamente e inopinatamente quella di trarne ulteriore motivo di soddisfazione per le scelte a livello nazionale.
Ha fatto bene Ignazio Marino a dichiarare di impegnarsi per le romane e i romani che non si sono recati a votare “perché disillusi” anche se il termine più adeguato sarebbe stato tout court “disgustati” in quanto ormai consapevoli a destra come a sinistra di non contare praticamente niente. Come è stato giustamente osservato il dato della vittoria del Pd va valutato nel quadro d’ insieme di “chi ha perso di meno” in un voto che ha registrato un’affluenza del 48,51% a livello generale e del 44,93% a Roma con un meno 11% di votanti rispetto al dato già bassissimo del primo turno.
A piazza di Pietra nella festa della vittoria di Marino, che ha ottenuto circa 664mila voti, più del doppio di quelli di Alemanno, non a caso sventolavano le bandiere del suo comitato elettorale mentre era difficile individuare quelle del Pd, per il semplice motivo che come quella della Serracchiani in Friuli e anche di più, questa è una vittoria personale del candidato, a prescindere o “nonostante” il partito.
Epifani in conferenza stampa ha sottolineato il dato omogeneo del voto che “ha premiato il Pd ovunque, una rivincita rispetto le politiche, anche se deve essere tenuto distinto il dato amministrativo da quello nazionale” e ha cercato di evitare il più possibile di nominare le larghe intese, pur condividendo la valutazione di Letta, secondo il quale il governo ne esce rafforzato.
E’ innegabile che questo voto amministrativo certifica con un sedici a zero del Pd sul Pdl, nell’ambito di un’ astensione che derubrica qualsiasi vittoria in una “non sconfitta” lo stato di putrescenza del partito di Berlusconi che sul territorio e nel voto amministrativo non può schermare l’impresentabilità della sua classe politica dietro la patacca della restituzione dell’Imu. E la coalizione di centrodestra ne esce distrutta in tutte le sue componenti, dalla destra di Alemanno alla Lega di Maroni che aveva puntato tutto sulla rinascita dal territorio e che evapora in Lombardia come in Veneto.
Due sconfitte sonore, tra le tante, sono particolarmente illuminanti sulla “saturazione” dell’elettorato berlusconiano: quella di Imperia che ha messo una pietra tombale sulla rete di potere del fu inossidabile Scajola e quella di Brescia teatro della tragicomica manifestazione antimagistrati che non ha evidentemente giovato al sindaco uscente Adriano Paroli “sostenuto” personalmente dal Berlusconi post condanna Mediaset.
Ma se il Pd trae il convincimento di aver fatto terra bruciata del M5S, al cui programma i candidati vincenti sono molto vicini come è avvenuto in Friuli con la Serracchiani, o non tiene conto che Marino a Roma ha vinto con e grazie al suo comitato e che a Brescia il vincitore Del Bono non ha voluto in campagna elettorale la sfilata della nomenclatura piddina, potrebbe arrivare alle politiche in condizioni peggiori di quelle della recente “non vittoria”. Naturalmente tutto può succedere e qualsiasi previsione è arbitraria tanto più se questa legislatura non sarà “a termine” come era lecito augurarsi.
Però non è da escludere che il pegno che il Pd dovrà pagare in termini elettorali per le larghe intese, a prescindere dalla grave responsabilità per le forzature agli equilibri costituzionali, sia altrettanto pesante del tributo al tanto vituperato (ex post) governo tecnico.