La sorella di un regista di documentari indipendenti denuncia la scomparsa del fratello. Lui si chiama Du Bin, ha 41 anni e non si hanno sue notizie dal 31 maggio. Nella sua carriera è stato anche fotografo per il New York Times e aveva appena pubblicato ad Hong Kong un libro sui fatti di Tian’anmen. I parenti pensano sia finito in carcere perché nel suo appartamento vuoto hanno trovato un invito a comparire davanti all’Ufficio di pubblica sicurezza di un distretto di Pechino. Ma l’Ufficio in questione non ha mai risposto alle richieste di chiarimenti. Le leggi cinesi prevedono che un individuo possa essere detenuto fino a quindici giorni per “disturbo dell’ordine pubblico”. Per tutte le altre imputazioni, escluse quelle che riguardano la sicurezza dello stato, la famiglia deve essere avvisata.
Du Bin non era un dissidente, ma aveva lavorato su molti temi sensibili tra cui i campi di lavoro. Poche settimane fa, a Hong Kong era uscito un suo documentario sulle donne del campo di Masanjia, nella regione nordorientale del Liaoning. Lo stesso campo che ha causato l’interruzione improvvisa delle pubblicazioni della rivista Lens. Sull’ultimo numero uscito, quello di aprile, c’era un’inchiesta che metteva a nudo gli abusi perpetuati nei campi e le assurde motivazione per cui vi si poteva essere spediti. Alcune di queste donne hanno scritto e firmato una petizione indirizzata al governo per chiedere la chiusura di questo tipo di centri di detenzione. Una prigioniera raccontava di averla nascosta nelle parti intime per portarla fuori quando era stata liberata. Il reportage raccoglieva altre testimonianze, e il puzzle che ricostruiva – simile in molti punti al documentario di Du Bin – è raccapricciante: lavoro a basso costo, torture, violenze fisiche e psicologiche al limite dell’umana sopportazione. Tanto che alcune di queste donne hanno tentato il suicidio.
È importante notare che l’improvvisa attenzione mediatica che i campi di lavoro hanno ricevuto ultimamente in Cina si deve soprattutto al governo. A gennaio di quest’anno Meng Jianzhu, capo della commissione che all’interno del Partito comunista si occupa degli affari legali, avrebbe dato l’annuncio della prossima fine del laodong jiaoyang (“rieducazione attraverso il lavoro”, solitamente abbreviata in laojiao), durante una riunione con le massime autorità giudiziarie del Paese. Poi non se ne è più saputo nulla. E chi – come nei casi qui raccontati – si è sentito in diritto di cominciare a parlarne, è stato messo a tacere. Il sistema dei campi di lavoro è stato introdotto nel lontano 1957 a seguito di una circolare del Consiglio di Stato. All’epoca vi si mandavano i cosiddetti “controrivoluzionari”, così come i colpevoli di reati minori come furto, frode o vandalismo. Con gli anni i campi sono stati riempiti anche di prostitute, tossicodipendenti, petizionisti, dissidenti e appartenenti a sette religiose illegali come quella del Falun Gong. Sono gli imputati di reati minori, punibili con una pena amministrativa comminata senza processo, che lascia quindi ampia discrezionalità alla polizia e si traduce spesso in arbitrio.
Secondo i dati diffusi dal Consiglio per i Diritti umani delle Nazioni unite, vi sarebbero sottoposte circa 190mila persone (i media cinesi parlano di 60mila), suddivise in circa 320 campi. L’anno passato il New York Times aveva pubblicato una lista di casi paradossali: un lavoratore migrante condannato ai lavori forzati per aver litigato con un funzionario in un ristorante o una madre per aver protestato pubblicamente contro la pena giudicata inadeguata a chi aveva violentato e costretto a prostituirsi la figlia. Ma il punto che ci tocca tutti è quello tirato fuori da un’inchiesta di Al Jazeera: i beni prodotti dai detenuti nei campi di rieducazione vengono poi illegalmente venduti a Stati Uniti ed Europa. C’è tornata ieri anche un’inchiesta del New York Times che ricostruisce a ritroso il percorso di un messaggio in un inglese stentato rinvenuto da una casalinga dell’Oregon in una decorazione di Halloween comprata nel 2011: “Signore, se dovesse acquistare questo prodotto, la prego gentilmente di rispedire questa lettera all’Organizzazione mondiale dei diritti umani”. Sembrerebbe che mittente e operaio coincidano, e che la lapide di Halloween sia made in China, nello specifico nel laojiao di Masanjia.
di Cecilia Attanasio Ghezzi