“I nostri voti sono congelati negli astenuti”. L’unica cosa giusta che
Maroni è riuscito a dire (nel fiume di parole espresse a vuoto) gliel’ha suggerita
Umberto Bossi.
Il capo l’ha detto due settimane fa in un’intervista al Fatto. Maroni ha impiegato quindici giorni in più – e una sconfitta come neanche i socialisti nel ’94 – per rubare il virgolettato al vecchio capo. Ma ovviamente, come tutti
i non leader, Maroni è incapace di guardare a sé e colpevolizza gli altri, in primis ovviamente Bossi.
Fa niente se è solo grazie a lui che Bobbo fa politica e sta lì, fa niente se è riuscito, Maroni, a diventare segretario solo perché ha scatenato i suoi colonnelli (Salvini e Tosi in testa) contro Bossi. Maroni non ci ha mai messo la faccia. Ha fatto la vittima prima e ora fa la verginella. E’ colpa degli altri, va ripetendo. Invece gli errori sono semplici e tutti suoi.
Primo: aver legittimato le
purghe interne dettate da simpatie e da vendette personali, senza un vero motivo. Un non leader lo fa. Senza pensare che la forza della Lega (unico partito identitario nel panorama italiano) è sul territorio e ogni leghista (deputato, assessore, consigliere o militante) ha nel territorio la sua forza. Ergo: cacci un uomo? Perdi i suoi voti. E se poi
cacci persone innocenti come Marco Reguzzoni fai pure la figura del bambino invidioso che vendica chissà che cosa.
L’emorragia dei voti parte da qui.
E si è allargata per l’errore successivo, clamoroso: l’aver preteso di trasformare un super trattore Lamborghini fortissimo nei campi in una auto di lusso abituata ad autostrada svizzere. Un non leader del resto si illude, una volta al potere, di fare quel che più gli aggrada. E così Maroni ha chiuso Pontida, le feste padane nel fango e l’orgoglio leghista dei duri e puri nelle fiere con hostess e società di marketing e comunicazioni da fighetti. Prima al Lingotto a Torino e poi a Cernobbio, dove solo Ambrosetti può. Non ha pensato che per dismettere corna e spadoni, salamelle e gazebo sotto l’acqua servono tempo e passaggi dolci, lineari. No, lui ha detto ai suoi datori di lavoro (gli elettori): o vi pulite, incravattate e cominciate a mangiar tartine oppure non mi servite più.
Come se non bastasse li ha fatti sentire bifolchi, superati, inutili.
Gli ha tolto i simboli e la fede, cancellato gli ideali, trasformato la Padania in uno slogan pensato in un ufficio marketing (Prima il Nord) ed è andato ad allearsi con l’odiato Berlusconi, poi è sceso a patti con il plurindagato Formigoni solo per avere garantita la poltrona di Presidente della Lombardia. Ma neanche Forlani sarebbe arrivato a tanto. O, comunque, non lo avrebbe fatto vedere. Almeno. E chi ha tentato di dargli fiducia, chi ha provato a seguirlo perché credeva che valeva la pena insistere e tentare si è accorto presto che
il non leader non c’entra nulla con la Lega. Ha portato in via Bellerio prima e in Regione poi gente esterna al partito e per lo più del Sud (
Isabella Votino in testa),
ha assunto amici degli amici, alcuni persino cacciati da Reggio Calabria e assunti in Lombardia a Expo.
E poi direttori generali, stuoli di collaboratori esterni infilati in un meccanismo che andava a Padania, parlava dialetti del Nord e godeva, orgoglioso, della propria identità: che fosse salame e polenta, corna o fango, questa era la Lega.
Ma ovviamente è colpa di Bossi, infamato e costretto a pubbliche scuse per ciò che non ha neanche commesso. La Lega Nord era un bel partito, genuino, identitario, vivo e sano. Peccato non esista più.