Abituati a stupire. Sempre. Ma mai come questa volta. Si presentano così i Sigur Rós al loro settimo lavoro. Mettono da parte quel glucosio generalizzato (forse a tratti pure eccessivo, quasi costruito), si disfano dell’immaginario di “Hoppipolla”, si liberano dal vetero-fardello che vede nell’Islanda terra di geyser e folletti. Björk, i Mùm, i GusGus, per non parlare di Olafur Arnalds, Seabear, Hjaltalín e Bang Gang, questo ha offerto l’isola del nord, fredda e immacolata come poche, negli ultimi vent’anni ormai. La scena musicale, paragonabile per importanza e grip solo a quella canadese, parigina e bristoliana, più attiva. Con un merito: che tutti questi artisti sono emersi da lande abitate da 300mila persone. Un rapporto tra qualità della proposta musicale e popolazione come mai s’era visto. 

Capita insomma che “Kveikur” (‘stoppino’, in islandese), nuovo disco del trio, tracci linee che mai erano state disegnate dai Sigur Rós. Chitarre stracolme di tensione, un’urgenza espressiva che vede nel precedente “Valtari” l’ideale contrappunto intimista ed ambient. Non bastasse questo, l’indole – a tratti quasi doom – porta “Kveikur” all’essere il loro disco rock per eccellenza. Un rock che si fonde con le tensioni elettroniche e che rivive in coordinate pop. 48minuti, 9 brani. Che, parlando dei Sigur Ros, è come dire che è il loro disco punk.

Insomma, un disordine organizzato che parte dalla traccia di apertura “Brennestein” con la batteria sincopata, esplode nelle pieghe dark della title-track e vive il suo zeitgeist nei carillon di “Isjaki”, forse la loro perfezione pop giunta a massima realizzazione e compimento (dà la polvere pure a “Hoppipolla“, tanto per rimanere sul loro versante mainstream). Una cattiveria nelle chitarre mai malinconica (non come in “( )” – il disco delle “the brackets album“, come lo chiamano loro -), ma feroce e quasi brutale. In “Kveikur” non c’è eccessivo ripiegamento nostalgico e, al netto forse di qualche episodio isolato col pilota automatico, fila via con grande naturalezza.

Hanno capito come sintetizzare la loro forma peculiare nel pop contemporaneo. Col risultato di non scontentare quasi nessuno, di risorgere da chi – forse pure io, tra i fan – li aveva dati sulla china discendente troppo presto. E, ancora una volta, mettono a segno il colpo di coda che conta. Bellissimo.

 

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