Scioperiamo. Per fermare la Cultura della violenza”: sette parole per fare una proposta che farà discutere, potrà piacere o meno, sembrare anacronistica, inutile, naif, idealista, fastidiosamente utopica e poco realista.

Però anche ballare in piazza, lo stesso giorno, in tutto il pianeta sembrava una cosa assurda, e sappiamo come è andata il One Billion Raising ideato da Eve Ensler il 14 febbraio di quest’anno.

L’appello, lanciato in rete da due giornaliste freelance, Barbara Romagnoli e Adriana Terzo e da Tiziana Dal Pra, presidente dell’associazione Trama di Terre), ha cominciato a girare nelle liste, e arriva poco dopo l’ennessimo drammatico episodio di violenza su una donna a Napoli, trovata in fin di vita abbandonata dentro un sacco della spazzatura, una raccapricciante ed eloquente immagine che evoca decina di pellicole cinematografiche, dietro alle quali ci si può schermare pensando che, appunto, si tratta di un film, mentre questa volta è vita vera.

L’appello, indirizzato per prime alle donne più in vista della rappresentanza istituzionale, la presidente della Camera, Laura Boldrini, la ministra delle Pari Opportunità, Josefa Idem, la segretaria della Confederazione Generale del Lavoro, Susanna Camusso e poi a “tutte le donne delle istituzioni, delle arti e dei mestieri, a tutte noi”, riflette l’urgenza che in molte (e molti uomini anche, per fortuna) proviamo per una sequenza senza tregua non solo di femminicidi, ma per una recrudescenza di violenza diffusa che parte dal linguaggio, essuda nei comportamenti sociali, rischia di diventare, dove già non è diventata, normalità nelle relazioni sociali.

“Pensavamo che l’uccisione di Fabiana, bruciata viva dal fidanzato sedicenne, esprimesse un punto di non ritorno. Invece no. L’’insulto che è stato rivolto alla ministra Cècile Kyenge – da un’’altra donna – dice molto più di quanto non vogliamo ammettere. E di fronte ad una violenza verbale simile, non ci sono scuse o giustificazioni che tengano, – si legge nel testo dell’appello -.  Noi non siamo mai state silenziose, abbiamo sempre denunciato questi fatti, le violenze fisiche e quelle verbali. Ma non basta.

Non basta più il lavoro dei centri antiviolenza, fondamentale e prezioso. E non bastano le promesse di leggi che neanche arrivano. La ratifica della convenzione di Istanbul? Un passo importante, ma bisogna aspettare e aspettare. E noi non vogliamo più limitarci a lanciare appelli che raccolgono migliaia di firme ma restano solo sulla carta; a proclamarci indignate per una violenza che non accenna a smettere; a fare tavole rotonde, dibattiti politici, incontri. Adesso chiediamo di più.

Chiediamo di poter vivere in una società che vuole realmente cambiare la cultura che alimenta questa mentalità maschilista, patriarcale, trasversale, acclarata e spesso occulta, che noi riteniamo totalmente responsabile della mancanza di rispetto per le donne, e che non fa nulla per fermare questo inutile e doloroso femminicidio italiano.

Chiediamo che la parola femminicidio non venga più sottovalutata, svilita, criticata. Perché racconta di un fenomeno che ancora in troppi negano, o che sia qualcosa che non li riguarda. O addirittura che molte delle donne uccise o violate, in fondo in fondo, qualche sbaglio lo avevano fatto. Quanta disumanità nel non voler vedere il nostro immenso lavoro, quello pagato e quello non pagato, il lavoro di cura e riproduttivo, il genio, la creatività, il ruolo multiforme delle donne”.

La richiesta delle firmatarie è quella di dare una prova fisica, che si concretizzi non solo e non tanto in una manifestazione tradizionale (corteo, sit in, ballo) ma che abbia un nome preciso: uno sciopero vero e proprio, una disconnessione condivisa dalle attività quotidiane. Per chi ha più di 40 anni non si tratta di una proposta nuova: le femministe degli anni ’70 provarono a pensare ad uno sciopero delle casalinghe, per protesta contro una cultura patriarcale che purtroppo, allora come ora, fa spesso dire alle ragazze e ai ragazzi che le loro mamme casalinghe ‘non lavorano’ stando ‘solo’ a casa. Corre alla mente Lisistrata, figura del mito che per la vulgata fu artefice dello sciopero del sesso contro la guerra fratricida tra Atene e Sparta, ma che in realtà è la prima scintilla dell’arte delle diplomazia e dell’arte delle cittadinanza.

“Fermiamoci per 24 ore da tutto quello che normalmente facciamo- continua l’appello – Proclamiamo uno sciopero generale delle donne che blocchi questo maledetto paese. Perché sia chiaro che senza di noi, noi donne, non si va da nessuna parte. Senza il rispetto per la nostra autodeterminazione e il nostro corpo non c’è società che tenga. Perché la rabbia e il dolore, lo sconforto e l’’indignazione, la denuncia e la consapevolezza, hanno bisogno di un gesto forte. Scioperiamo per noi e per tutte le donne che ogni giorno rischiano la loro vita. Per le donne che verranno, per gli uomini che staranno loro accanto. Unisciti a noi, firma e diffondi questo appello. Insieme, poi, decideremo una data”.

Per firmare questa è la mail scioperodonne2013@gmail.com

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