I pubblici ministeri della Dda di Palermo hanno chiesto che si riconosca la colpevolezza del politico per concorso esterno in associazione mafiosa. Secondo l'accusa il politico, già sottosegretario all'Interno con relativa scorta, avrebbe anche incontrato il boss di Castelvetrano
Una condanna a sette anni e quattro mesi per l’ex sottosegretario all’Interno Antonio D’Alì, senatore Pdl, accusato di avere aiutato, muovendosi quasi da “pari” a “pari” la mafia più potente che esiste, quella del super latitante Matteo Messina Denaro, a fare affari, a pilotare appalti, inquinare le istituzioni, infiltrare il tessuto sociale ed economico della provincia di Trapani.
I pubblici ministeri della Dda di Palermo, Paolo Guido e Andrea Tarondo, dinanzi al giudice per l’udienza preliminare Francolini, hanno chiesto che si riconosca la colpevolezza del politico per concorso esterno in associazione mafiosa. Durante la requisitoria i due pm hanno descritto il contesto sociale trapanese dove tanti negano l’esistenza della mafia e dove D’Alì “è stato anello di collegamento tra la società civile e l’organizzazione mafiosa”. Gli sono contestati episodi di riciclaggio, 300 milioni di lire (un’operazione semplice, secondo l’accusa, per chi come lui controllava una banca, la Banca Sicula); la fittizia vendita di un terreno ai Messina Denaro, e appalti favorevoli a una serie di imprenditori “chiacchierati”.
Nel periodo in cui era sottosegretario all’Interno avrebbe tentato di ottenere la “cacciata” da Trapani di alcuni investigatori, spingendo perché il governo Berlusconi nell’estate 2003 procedesse a quello che risultò essere l’improvviso trasferimento del prefetto di Trapani dell’epoca, Fulvio Sodano, inviso ai mafiosi perché aveva tolto di mano loro i beni confiscati e impedito l’assalto ad una delle imprese più ghiotte, la Calcestruzzi Ericina. Agli atti del processo c’è anche la testimonianza dell’ex moglie di D’Alì, Antonietta Picci Aula, che ha detto di avere visto un giorno arrivare al marito il telegramma di un boss dal carcere che si lamentava di essere stato dimenticato dal maritO, e gli appalti milionari per i porti di Trapani a Castellammare del Golfo finiti “grazie a D’Alì” in mano di imprese mafiose.
“Ladri e assassini fanno quello che vogliono, e la polizia, con il pretesto di mantenere l’ordine, sta sui campi di calcio… per guardare la partita! Oppure gioca a fare la guardia del corpo del senatore Ardolì…!”; in un passaggio de “la Gita a Tindari” del “maestro” Andrea Camilleri l’Ardolì sembra ecoincidere con il senatore. Dal 2001 al 2005 sottosegretario cnn tanto di scorta, si occupò di sicurezza e criminalità nonostante i suoi presunti storici rapporti con la famiglia mafiosa dei Messina Denaro di Castelvetrano. Con don Ciccio, morto nel 98, e Matteo da 20 anni super latitante, tutti e due padre e figlio, “campieri” del D’alì anche durante la latitanza. Uno dei fatti che emerge dal processo è quello che Matteo Messina Denaro già ricercato e D’Alì già senatore, si sarebbero pure incontrati in un “baglio” (cortile, ndr) dove ancora oggi i Messina Denaro condividono con i D’Alì la proprietà.