In campagna elettorale ha parlato di ridurre le tensioni con l’Occidente, ridurre l’intromissione del governo nella vita privata dei cittadini, ridurre il divario legale tra uomini e donne, rimettere mano all’economia del paese. Ora tocca ai governi occidentali cogliere questa occasione per disinnescare i molti fronti di tensione, dalla Siria al dossier nucleare
A dispetto di molti pronostici, Hassan Rohani ha vinto al primo turno le elezioni presidenziali iraniane. I dati ufficiali del ministero dell’interno parlano di una vittoria netta – il 50,71 per cento dei voti – con un distacco enorme sul secondo classificato, il sindaco di Tehran, Mohammed Baqer Qalibaf, che si è fermato al 16 per cento. A Rohani sono andati più di 18 milioni di voti ed è una vittoria netta anche per l’affluenza alle urne: Mostafa Mohammad-Najjar in conferenza stampa ha detto che il 72 per cento dei 50 milioni di potenziali elettori è andato a votare. Tanto che ieri, in alcuni distretti di Tehran e di altre grandi città, l’apertura dei seggi è stata prorogata per diverse ore.
Rohani, chierico sciita, moderato, ex negoziatore per il programma nucleare iraniano, ha quindi battuto a sorpresa gli altri candidati, tutti appartenenti, con varie sfumature, al campo dei conservatori. Le sorprese di questo risultato sono due: la vittoria in sé e il fatto che sia potuta accadere.
All’inizio della campagna elettorale, la presenza di Rohani tra i candidati che avevano passato lo scrutinio politico-religioso per essere ammessi alla contesa, era stato accolto come una specie di foglia di fico politica, escogitata dall’ala conservatrice – al potere da otto anni con Mahmoud Ahmadinejad – per far dimenticare le elezioni del 2009, gravate da pesantissimi sospetti di brogli e seguite dall’Onda verde delle manifestazioni di piazza che avevano fatto traballare le istituzioni della Repubblica islamica. Invece, Rohani ha vinto: segno che le elezioni stavolta sono state vere elezioni, che la domanda dei cartelli del 2009 “Che fine ha fatto il mio voto?” è stata presa in seria considerazione.
Dietro Rohani ci sono due vecchie volpi della politica iraniana, i due ex presidenti riformatori Mohammed Khatami e Akbar Hashemi Rafsanjani, che specialmente nelle ultime settimane hanno fiutato l’aria e capito che anche in conservatori avrebbero voluto un voto vero, per darsi una nuova legittimità, e che in questo modo si sarebbe aperta una possibilità di cambiamento concreto.
Quanto avanti possa andare questo cambiamento, sarà da vedere nelle prossime settimane: fino ad agosto è in carica Ahmadinejad e poi ci sarà il passaggio di consegne, ma Rohani nella sua campagna elettorale ha parlato di ridurre le tensioni con l’Occidente, ridurre l’intromissione del governo nella vita privata dei cittadini, ridurre il divario legale tra uomini e donne, rimettere mano all’economia del paese, colpita duramente dalle sanzioni occidentali: l’inflazione è al 30 per cento e la moneta nazionale ha perso il 70 per cento del proprio valore, erodendo il potere d’acquisto innanzi tutto delle classi popolari che avevano sostenuto Ahmadinejad.
Stavolta a Tehran non ci sono i cortei di protesta, ma manifestazioni di gioia incredula: molti iraniani sono andati a votare convinti che il loro voto sarebbe stato inutile, come quattro anni fa. E invece Rouhani ha vinto. Lo sconfitto principale è la guida spirituale Ali Khamenei, con il quale il nuovo presidente dovrà trovare un modus vivendi che renda praticabili i cambiamenti promessi senza far entrare troppo in fibrillazione l’apparato conservatore. Ma la sconfitta è così netta che anche la Guida suprema dovrà, si spera, tenerne conto.
Gli iraniani hanno chiaramente detto la loro e si sono espressi per un cambiamento di direzione. Ora tocca ai governi occidentali cogliere questa occasione per disinnescare i molti fronti di tensione, dalla Siria – dove non è detto che le cose cambino rapidamente – al dossier nucleare, fino alla collaborazione con Tehran per la stabilizzazione dell’Afghanistan. La Repubblica islamica, nel suo modo imprevedibile, ha dato prova di una vitalità all’altezza della grande storia iraniana: un candidato riformista e per molti versi outsider ha vinto elezioni democratiche e trasparenti. I falchi del confronto duro e magari armato con la Repubblica islamica, a Washington come in Europa e soprattutto a Tel Aviv (Benyamin Netanyahu in testa) sono rimasti spiazzati. E anche questa è una bella sorpresa.
di Enzo Mangini