A due anni dal referendum del 2011 è ancora lunga la strada verso una gestione del servizio idrico sottratta a logiche di mercato e di profitto; peggio, una politica decisamente protesa a rispettare parametri economici e di mercato nonché gli interessi ad essi sottesi piuttosto che i diritti sociali, quella strada, non ha fatto che riempirla di ostacoli. È il deficit democratico che attanaglia l’Italia nel regime europeo della crisi. In fondo, quei referendum, pronunciandosi non solo contro la mercificazione di un bene vitale ma per la permanenza nella sfera pubblica di tutti i servizi essenziali, ben potevano essere interpretati come un “no” plebiscitario alle politiche di austerity e alle privatizzazioni.
Ieri, un accordo bipartisan sull’ignorare l’esercizio di democrazia diretta, oggi, il governo di larghe intese: è la politica dell’accordo, della coesione sociale forzata più che costruita, di una sinistra parlamentare che non ha voglia di parteggiare. I referendum del 2011 hanno testimoniato la presa di coscienza collettiva di una comunità espropriata; un esproprio di beni e servizi sottratti dallo Stato alla sfera dell’appartenenza comune per farne campo di processi di accumulazione di profitto, un campo aperto alle multiutility e alle banche. Esemplificativo di questo processo l’ingresso del Fondo strategico italiano – partecipato al 90% da Cassa depositi e prestiti, a sua volta partecipata al 30% da fondazioni bancarie – nel capitale sociale di Hera S.p.A., multiutility dell’Emilia Romagna, che così ha potuto realizzare la fusione con Aps-Acegas operante in Veneto e Friuli. Con questa operazione Cassa depositi e prestiti ha investito nella fusione 100 milioni di euro, acquisendo il 6% del capitale sociale della nuova società.
Esattamente quanto l’Europa della troika chiede allo Stato italiano. Lo aveva fatto meno di due mesi dopo il referendum, il 5 agosto 2011, con la lettera indirizzata al governo italiano e firmata dal governatore uscente della Bce, Jean Claude Trichet, e da quello in pectore Mario Draghi: si chiedeva esplicitamente l’aumento della concorrenza «particolarmente nei servizi» e azioni mirate «a sfruttare le economie di scala nei servizi pubblici essenziali», in poche parole, favorire l’aggregazione di aziende che coprono servizi fondamentali per le comunità locali nell’ambito di una gestione privatistica e tramite società quotate in borsa.
Ad esaudire i desideri della Bce, ci prova subito l’ultimo governo Berlusconi che emana un decreto legge (n. 138 del 13 agosto 2011), lo intitola, probabilmente ispirato dalle barzellette del suo leader, «Adeguamento della disciplina dei servizi pubblici locali al referendum popolare (…)» e, all’art. 4, reintegra pedissequamente l’art. 23 bis del d.l. n. 112 del 2008, cioè quello abrogato dal referendum al fine di permettere una gestione diretta del servizio da parte dell’ente locale e non tramite società per azioni quotata in borsa. Il governo Berlusconi cade quando ancora viva è la spinta al cambiamento dal basso che i referendum popolari avevano reso palese – a mio parere – in maniera molto più vera e partecipata che il trionfo del M5S alle ultime politiche. Persino il Pd sembrava essersene accorto: sui suoi manifesti, dopo il referendum, campeggiava lo slogan «il vento cambia», ma si trattava evidentemente di semplice riferimento all’estate vicina non di una metafora politica. Il PD, in un momento in cui solo il PD avrebbe potuto perdere le elezioni, appunto per non correre il rischio, rinuncia alla tornata elettorale. Arriva il governo Monti; in quanto tecnici non eletti, i ministri avrebbero almeno potuto dimostrare onestà intellettuale e coerenza giuridica rendendo palese lo stato di torpore democratico e cambiando il titolo del decreto legge da «adeguamento al» a «cancellazione del» referendum popolare, invece il titolo rimane uguale ma l’art. 4 del d.l. n. 138 del 2011 subisce numerose modifiche, tutte tese a limitare ulteriormente le ipotesi di affidamento diretto dei servizi pubblici locali [art. 9, comma 2, lett. n), della l. 12 novembre 2011, n. 183 (Legge di stabilità 2012); art. 25 d.l. 24 gennaio 2012, n. 1 (Disposizioni urgenti per la concorrenza, lo sviluppo delle infrastrutture e la competitività), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della l. 24 marzo 2012, n. 27, nonché art. 53, comma 1, lett. b), del d.l. 22 giugno 2012, n. 83 (Misure urgenti per la crescita del Paese)].
La Corte costituzionale, con la sentenza 17 luglio 2012, n. 199, nel dichiarare l’illegittimità di tali provvedimenti racconta in più passaggi la democrazia calpestata. Non sorprende allora che, proprio contro tale sentenza e contro l’applicazione del referendum, il 29 maggio 2013, si sia scagliata la Raccomandazione del Consiglio europeo «sul programma nazionale di riforma 2013 dell’Italia e che formula un parere del Consiglio sul programma di stabilità dell’Italia 2012-2017». Il “considerando” 17 della raccomandazione afferma: «A seguito della sentenza della Corte costituzionale del luglio 2012, altrettanto importante è intervenire per aprire alla concorrenza i servizi pubblici locali», mentre al punto 6 si chiede all’Italia di «assicurare la corretta attuazione delle misure volte all’apertura del mercato nel settore dei servizi (…) e promuovere l’accesso al mercato, ad esempio, per la prestazione dei servizi pubblici locali».
L’Europa continua insomma a ribadire il dogma del «privato è bello» ma non è solo la volontà popolare a rifiutarlo. In 28 delle 44 città dell’Unione Europea al di sopra del milione di abitanti, il sistema idrico è a gestione pubblica, mentre 8 delle rimanenti 16 città si trovano in Gran Bretagna e Francia, roccaforti storiche delle multinazionali del settore; la vera novità è invece che l’unico cambio di gestione si è mosso in direzione di un ritorno al settore pubblico con la rimunicipalizzazione del servizio a Parigi nel gennaio 2010; proprio nella Francia delle due più grandi multinazionali del settore idrico, Suez e Veolia, sono più di 40 le città che si sono avviate verso la gestione pubblica, tra cui Tolosa, Lione, Bordeaux e Lille.
Ma c’è di più, la gestione privatistica del servizio idrico, per anni sbandierata come sinonimo di efficienza, si riscopre in realtà parte integrante di un’economia fondata su una sorta di “catena del debito”: quello della multiutility laziale Acea S.p.A., dal 1999, anno dell’ingresso dei privati, ad oggi è passato da 666,88 milioni a 2,57 miliardi di euro. Acea S.p.A., poi, si comporta con le società controllate come una vera e propria banca prestando denaro a condizioni di mercato: lo fa con Acea Ato 2, i cui utili (mediamente 50 milioni di euro) vengono costantemente prelevati da Acea S.p.A., salvo poi concessione di ulteriori presiti da parte della stessa società madre tramite una linea di credito intercompany. In sostanza Acea Ato 2 è così costretta ad utilizzare i propri utili per pagare gli interessi sui prestiti ricevuti. Risultato: il debito complessivo della società è passato dai 345 milioni del 1999 agli 844 milioni odierni. Se questa è la realtà, è anche nelle vicende del settore idrico italiano che si può leggere la più grande follia dei giorni nostri: pretendere che il neoliberismo possa essere al contempo fonte e soluzione della crisi del debito.
Avevano ragione i manifesti del Pd, «Cambia il vento», peccato ci si continui a pisciare contro.