Kirk (Chris Pine) e Bones sono in fuga, inseguiti da una incazzosa tribù del pianeta Nibiru. La foresta è rosso sangue, gli indigeni imbrattati d’argilla: se pensate a Indiana Jones non sbagliate, manca solo la musichetta. E Spock (Zachary Quinto)? Il refrain non cambia: sta cercando di gettare un cubo di ghiaccio ipertecnologico nel vulcano che minaccia di distruggere Nibiru. Una missione potenzialmente suicida, eppure, del film è la venuta al mondo: la logica vulcaniana, l’istinto umano, in mezzo Star Trek – Into Darkness, seconda prova di J.J. Abrams al comando della Enterprise.
Nemmeno nello spazio profondo c’è pace: un attacco fratricida mette a repentaglio la Flotta Stellare, il Capitano Kirk e il Primo Ufficiale Spock devono fronteggiare la minaccia, inseguendo fino al pianeta Klingon il terrorista Khan (l’ottima new entry Benedict Cumberbatch), che un po’ fa il superuomo un po’ Guy Fawkes 2.0. Non solo è tornato, Mr. Abrams si supera: Into Darkness è meglio del precedente reboot Star Trek (2009), e ormai neanche il test del Dna potrebbe confutare che J.J. sia il figlio naturale di Spielberg e Lucas. Con il traballante Super 8 aveva tessuto le lodi di E.T. e Incontri ravvicinati del terzo tipo, ora estrae dal cilindro Indiana Jones, lo sposa alla cosmogonia seriale del demiurgo Gene Roddenberry e fa palestra per dirigere tra due anni l’episodio VII di Star Wars (del prossimo Star Trek farà solo il produttore).
Se queste sono le promesse, non deluderà: J.J. è l’attuale incarnazione della New Hollywood, ovvero l’erede della generazione dei Movie Brats Spielberg, Lucas, Coppola, De Palma e Scorsese che negli anni ’70 rimisero in carreggiata lo studio system stravolgendo i generi. Uomini macchina, ma quella che guidavano: la loro presa ha fatto la storia del cinema, e continua a farla. Gli ultimi tre Abrams se li riserva per il futuro, per ora una J sta per Steven, l’altra per George: umanesimo intergalattico, amicizia, giustizia e vendetta a triangolare tra i pianeti, il regista newyorkese, classe ‘66, riesce a rendere nuovo ciò che è vecchio, e viceversa. Senza nostalgia canaglia e, nel contempo, senza eludere la reverenza per l’originale: un mediatore, con un occhio al futuro, l’altro ai maestri e la mano al portafogli. I conti tornano: 378 i milioni di dollari incassati finora, a fronte di un budget di 190. La conversione in 3D è tra le migliori mai viste, le musiche del fedele Michael Giacchino hanno gusto e sostanza, i dialoghi sono fulminanti e dischiudono scene intime da Kammerspiel nello spazio, la regia è fluida e accogliente, l’action impeccabile: Into Darkness rimane un’operazione commerciale, ma a cuore aperto.
Se J.J. mette empatia e tatto filologico, l’America può riflettere su se stessa, a partire dalla minaccia interna, che non c’è Nsa e scudo stellare che tenga. Grazie al magnetico Khan, l’Enterprise imbarca la guerra al terrore e Zero Dark Thirty, lo scontro intestino e Skyfall, mettendo in parole, opere e missioni un vecchio adagio: per aspera ad astra. Tocca al duro fuori e sensibile dentro Kirk, al vulcaniano dimezzato Spock fare da tramite, con un passo a due di integrazione: lassù qualcuno ci ama, e ricambiare è un gioco da ragazzi. Ingenuo, elementare, J.J. forse lo è davvero, ma fare le pulci a cotanto blockbuster è impresa vana e disperante: qualcuno ha stigmatizzato la concessione al meccanico, il predominio dell’azione sul pathos, eppure si sbaglia. A tracciare la rotta dell’Enterprise è una bussola morale: se da Londra a Klingon il territorio lo conosciamo bene, la carta rileva una sensibilità inusitata, vecchia-e-nuova insieme. A spiegarla sullo schermo uno startrekker con l’anima: J.J. in the sky with diamonds.
il Fatto Quotidiano, 13 Giugno 2013