La fabbrica Cft Rossi e Catelli dopo la decisione di mettere in mobilità una parte degli operai, ha ingaggiato un'agenzia che si occupa di servizi di ordine e sicurezza per presidiare l'ingresso e impedire i picchetti. Il direttore: "Possono farlo all'esterno del perimetro aziendale e possono perfino appendere gli striscioni alle transenne"
Vigilantes e transenne davanti ai cancelli dell’azienda per impedire agli operai di fare picchetti o organizzare proteste. Il provvedimento dei vertici della Cft Rossi e Catelli di Parma, che si occupa di impiantistica alimentare soprattutto nella filiera del pomodoro, arriva proprio quando di manifestare i lavoratori ne avrebbero tutti i motivi: il giorno in cui l’impresa ha comunicato ai sindacati che metterà in mobilità 64 operai.
L’annuncio di ristrutturazione è stato un fulmine a ciel sereno durante la presentazione del piano industriale. La ditta chiude in passivo da cinque anni e per ragioni di bilancio i tagli si devono fare e si abbattono tutti sui lavoratori e su un intero comparto che chiude, tanto che quelli che saranno lasciati a casa sono un terzo esatto dei dipendenti dello stabilimento.
I rappresentanti sindacali convocano un’assemblea straordinaria, ma quando i lavoratori escono dalla ditta si trovano di fronte una decina di addetti alla sicurezza con tanto di pettorine e transenne a delimitare “la proprietà privata che non si può occupare”. Gli operai protestano, i sindacati chiamano la Digos per verificare la legalità della vicenda. Si viene a sapere che la dirigenza della Cft ha ingaggiato un’agenzia che si occupa di servizi di ordine e sicurezza, con sei persone in servizio che si turneranno giorno e notte (anche se la ditta fa orario di lavoro solo diurno) per presidiare l’ingresso dello stabilimento di via Paradigna, controllando chi entra e chi esce.
“Non ho mai visto una cosa del genere, ci tolgono perfino il diritto di protestare – accusa la segretaria provinciale di Fiom Antonella Stasi – Questa volta hanno calcolato davvero tutto per tutelare i propri interessi”. Calcolato nei minimi dettagli, accusano i dipendenti, memori di quando nel 2010 gli operai di fronte a un altro piano di messa in mobilità occuparono la fabbrica bloccando l’uscita dei macchinari che aspettavano di essere imbarcati per arrivare ai clienti. Alla fine la mobilità venne ritirata e lo stabilimento liberato. Forse per evitare la stessa fine di tre anni fa, pensano i sindacati e i lavoratori, i vertici Cft hanno cambiato strategia: la sera prima di comunicare il piano industriale, quando lo stabilimento era deserto, hanno fatto portare via tutti i macchinari in consegna. Poi il giorno dell’annuncio, hanno messo a guardia dei cancelli bodyguard per impedire il blocco delle attività.
Una versione confermata anche dal direttore generale della Cft Alessandro Merusi: “Tre anni fa l’azione di protesta era stata molto forte, era stata bloccata la produzione, i camion in uscita e in entrata venivano fermati all’ingresso, alcune persone avevano paura a venire a lavorare in ufficio. E questo fino a quando alla fine abbiamo firmato un accordo di non belligeranza – spiega – Quell’operazione ha fatto perdere all’azienda qualche milione di euro e non ci possiamo più permettere che accada una cosa del genere”. Allora il piano di messa in mobilità, che era meno pesante di quello di oggi, era rientrato, ma nel frattempo la crisi e il mercato in calo hanno peggiorato le condizioni della ditta che lavora prevalentemente su commissioni. Fino alla decisione di chiudere ed esternalizzare il ramo produttivo che comprende lucideria, carpenteria e magazzino e di tagliare l’organico.
“Non è un piano indolore e ne siamo consapevoli. Riconosciamo il diritto allo sciopero dei lavoratori, che possono manifestare all’esterno del perimetro aziendale e a lato, abbiamo detto loro che possono perfino appendere gli striscioni alle transenne – continua il direttore generale – Ma dobbiamo garantire anche il diritto al lavoro per le persone che rimangono e soprattutto non possiamo permettere che l’azienda abbia ripercussioni produttive”.
Una versione confermata anche dagli uomini dell’agenzia di sicurezza: “Facciamo solo servizio d’ordine per non creare ingorghi e blocchi all’ingresso dei cancelli, vigiliamo sull’accesso in azienda – spiegano gli addetti al servizio di sicurezza – I lavoratori possono stare qui, davanti a noi, possono anche appendere gli striscioni alle transenne”. Il punto però è che non possono fare presidi davanti ai cancelli né tentare altre iniziative per sensibilizzare i vertici a trovare un’alternativa al licenziamento. E questa forma di controllo preventivo proseguirà per 75 giorni, “giusto il tempo necessario per chiudere la trattativa sulla mobilità” spiega Stasi.
Di nuovo tutto calcolato, accusano i sindacati, per non lasciare margini di trattativa o di contrattazione con i lavoratori. “Assumono persone per un servizio di sicurezza mentre si liberano di 64 dipendenti. Se pensano di fermarci così, si sbagliano – conclude Stasi – Siamo pronti a bloccare la strada. Non possono togliere ai lavoratori il diritto di manifestare e di lottare per il proprio lavoro”.
L’azienda smentisce e fa una proposta di apertura ai sindacati, senza però retrocedere sulla decisione di attuare il piano aziendale: “Non è stato fatto tutto a tavolino, l’operazione era necessaria per la sopravvivenza dell’azienda – replica Merusi – Siamo pronti a togliere i vigilantes dall’ingresso e a destinare quei soldi per la fase incentivale dei lavoratori. Questo però se i sindacati mostreranno apertura senza aizzare gli animi e cercheranno insieme a noi soluzioni per superare con il minor trauma possibile per tutti questa fase delicata per l’azienda”.