Arriva in libreria l'ultimo saggio del ricercatore e divulgatore scientifico Dario Bressanini che, contro l’associazione chimico=cattivo e naturale=buono, analizza molti alimenti di uso comune resi ormai mitici da una pubblicità sempre più agguerrita
Se vi imbattete in uno slogan di una nota mortadella che recita così: “Zero chimica, 100% naturale”, e nella foto vedete un bel salume rosa in vista, sappiate che si tratta di pubblicità ingannevole: perché per coerenza, l’immagine dovrebbe essere vuota, visto che qualsiasi cosa esistente, sia essa umana o suina, è sempre e comunque un composto chimico. Contro l’associazione chimico=cattivo (“non sopporto che la parola chimica venga usata la parola in senso dispregiativo”) e l’ormai sfrenata tendenza a considerare, al contrario, ciò che è “naturale” non solo buono, ma un fantomatico mondo a sé (“non mi risulta che esistano alberi su cui crescono mortadelle pronte da staccare e mettere nel panino”), è arrivato in libreria “Le bugie nel carrello“ (Chiarelettere edizioni), l’ultimo libro di Dario Bressanini, ricercatore e divulgatore scientifico. Titolo sequel del fortunato “Pane e bugie“, ma con i singoli alimenti coraggiosamente trascinati sul banco degli imputati: come, appunto, la mortadella Fiorucci, che difficilmente potrà contenere solo nitriti di origine naturale (mentre al tempo stesso ci fa dimenticare che i conservanti, dannosi in alte quantità, hanno comunque una loro funzione: tanto per dire, evitare il mortale botulino).
L’autore ci invita seguirlo in una tragico-esilarante visita a un supermercato qualunque, per scoprire che il grottesco si annida là dove meno te lo aspetti – ad esempio in un colorante arancione messo in mazzancolle fresche e assente in quelle surgelate – e per sfatare alcune false credenze su alimenti resi mitici da un marketing che si fa sempre più agguerrito. Si parte con il cereale Kamut, il collega radical chic del grano nazionalpopolare, che vanta nobili origini egizie ed è in vertiginosa ascesa nelle vendite. I grissini griffati saranno buonissimi ma è meglio sapere, prima di sgranocchiarli che non solo i semi non sono, ovviamente, le germinazioni di quelli di 4.000 anni fa, ma anche che Kamut è diventato un marchio registrato che può essere usato solo alle condizioni della “Kamut international”; laddove il suo stesso grano – il Kohorasan – può essere coltivato da chiunque, ma poiché i consumatori non lo associano al Kamut resta invenduto. Inoltre il Kamut non va bene per i celiaci, come qualcuno pensa, e costa il quadruplo del suo equivalente di grano duro.
Altro scaffale, altro mito da relativizzare. Chi non conosce “Selenella”, la “patata intelligente” arricchita di selenio i cui spot – con la donna che fermava i passanti col noto tubero in mano – erano stati giustificati dal creative director della campagna col fatto che gli «uomini hanno una pessima conoscenza di patate e non dovrebbero mai occuparsene»? Non che il selenio non serva al nostro organismo: ma, come in molti altri casi di alimenti arricchiti, bisognerebbe sempre chiedersi in quale quantità. Invece, dagli omega3 ai polifenoli, dagli antiossidanti alle vitamine, dal ferro al thé verde, «che si mette pure nei detersivi perché la sua presenza, anche in tracce del tutto trascurabili dal punto di vista biologico, è in grado di spingere all’acquisto, negli ultimi decenni l’industria alimentare ha scoperto che, per differenziare due prodotti identici, basta aggiungere una sostanza che il consumatore ha imparato a identificare come benefica e pubblicizzarla sulla confezione».
E poco conta se, ad esempio, 100 grammi di sogliola hanno lo stesso selenio di otto etti di patata intelligente. Il libro, che contiene anche un capitolo interessante sul rapporto (presunto) tra prezzo dei vini e gusto e uno sui tanti motivi per cui sarebbe davvero ridurre drasticamente il consumo di tonno, racconta il cortocircuito nel quale finì ad un certo punto il pomodoro pachino, accusato di essere ogm solo perché prodotto, come tanti, da semi ibridi, tra l’altro creati in Israele. O la bufala, è il caso di dirlo, delle mozzarelle di bufala dop, che nell’80% dei casi contengono latte vaccino, anche in quantità elevate. E a proposito di latte: lo slogan sempre più diffuso secondo cui “il latte fa male” dimostra che quel legame tra cultura e natura che i consumatori tendono a dimenticare: la capacità di digerirlo, che dipende dalla presenza dell’enzima della lattasi – varia tra persone e paesi…proprio a seconda del consumo: in altre parole, un’abitudine a bere latte ha favorito una pressione verso una certa mutazione genetica che ne rende possibile il consumo (che a sua volta rafforza la tradizione di berlo).
Altro capitolo, anzi scaffale, sul quale Bressanini si spende da tempo è quello degli alimenti biologici, spesso segregati tutti insieme tra loro anche «per evitare che i clienti possano fare i confronti diretti tra prezzi di prodotto equivalenti». Fanno eccezione le uova, rispetto alla cui varietà, però, il consumatore si sente un po’ smarrito: oltre rivelare cosa significhino di famigerati codici stampigliati sul guscio, il libro spiega anche perché tutto sommato, le qualità di un uovo “da batteria” non sia poi così peggiori di un uovo ruspante (al netto delle condizioni delle galline, però).
C’è spazio infine, anche per ricordare che i prodotti biologici e quelli biodinamici sono due cose diverse e che la biodinamica, una pratica risalente agli insegnamenti agroalimentari di Rudolf Steiner, non ha una certa base scientifica, nonostante il fascino di chakra, vibrazioni e mistiche energie. Meglio tenere fuori le emozioni dal carrello, insomma, anche se c’è da chiedersi se questo sia al 100% possibile e, soprattutto, al 100% auspicabile. Ma siccome c’è una bella differenza tra lasciarsi andare ed essere truffati, ben vengano inchieste simili. Anzi, un consiglio all’autore per il suo terzo libro: occuparsi del mirabolante mondo degli alimenti per l’infanzia. A partire da quel tanto strombazzato latte con 24 volte la dose di ferro del latte di mucca. Forse dannoso, sicuramente inutile.