Ieri mattina aprendo i quotidiani, mi sono sorpreso. Molti dedicavano grande rilievo al settantesimo compleanno di Raffaella CarràLa Stampa aveva una sua bella fotografia a colori in prima pagina, Il fatto quotidiano, che non è mai molto tenero con lo star system televisivo, due paginone biografiche e celebrative.

Com’è spiegabile tanta attenzione per un personaggio che appartiene soprattutto al passato di un mezzo – la tv generalista – che, a sua volta, è, a detta di molti, un residuo del passato? Un personaggio che ha rappresentato quel tipo di cultura di massa verso il quale non sono mai mancate critiche, prese di distanza, insofferenze. Un personaggio che ha avuto alti e bassi, cedimenti alle lusinghe della tv commerciale e che, almeno a mio parere, ha dato il meglio nei primi anni Settanta, quando come soubrettte rappresentava davvero un’immagine nuova anche figurativamente, mentre nei decenni successivi, nel ruolo di conduttrice, nei talk, nei game o nei people show non ha più offerto nulla di entusiasmante.

Va bene che siamo un paese di vecchi, pieni di nostalgie, che si attaccano ogni sera a Techetechetè, che intorno c’è un tale vuoto che non si può che guardare indietro. Ma ci deve essere anche qualcos’altro. Un aiuto a rispondere a queste domande mi è arrivato nella stessa serata da Pippo Baudo e dal suo viaggio attraverso l’Italia che è ripreso in prima serata su Rai 3 con un formato dilatato a 100 minuti. Del programma avevo già scritto l’anno scorso e la puntata dedicata a Milano mi ha confermato la precedente impressione. Si possono anche trovare limiti e difetti dell’operazione, alcune lungaggini su temi e personaggi già troppo consumati come i varietà della Rai, alcune situazioni prevedibilmente ufficiali come la visita a De Bortoli, un’inspiegabile timidezza di alcuni intervistati: Cella, Escobar.

Ma c’è più voglia di fare autentica televisione in quelle due ore scarse di Baudo che in tutto il resto della settimana; c’è una capacità di sorprenderti quando meno te l’aspetti che vale il prezzo del biglietto, come nell’omaggio finale a Zavattini o nel racconto familiare di Antonacci o quando, nel momento di maggior pathos del racconto delle glorie della Scala, appare Mario Capanna a rievocare finalmente con precisione e con cognizione di causa l’episodio della contestazione alla “prima” del ’68.

Ecco, in questa televisione vecchia, tranquilla, dai ritmi compassati, dove non si spezzano i discorsi e le inquadrature per paura che cali la soglia di attenzione c’è forse la spiegazione della passione degli italiani per alcuni suoi protagonisti. Personaggi che stabilivano con il loro pubblico un rapporto paritetico, che lo facevano divertire con cose che loro stessi trovavano divertenti, che gli raccontavano solo cose che loro stessi trovavano interessanti, certi che se anche il telespettatore non le conosceva, le avrebbe conosciute volentieri. All’opposto di quell’altra filosofia che considera il pubblico “un bambino dell’età mentale di sette anni” e la tv un mezzo per conservarlo in quella condizione.                 

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